Il bivacco della volta scorsa era terminato con una domanda: è davvero la catena di ragionamenti basata sulla logica che ha portato alla forma lunga del libro e che è stata messa in crisi dal web?
Lo so: non sembra una domanda molto sexy… Mettiamola così: se smettessimo di scrivere e leggere libri, smetteremmo anche di ragionare?
Così riformulata, la domanda sembra un po’ idiota, ma non credo che la risposta sia banale. Per cercarla mi sono rimesso in cammino e sono tornato al bivio in cui avevo preso la deviazione verso Derrida. È il punto in cui Weinberger inizia la sua argomentazione sulla forma libro e la forma web dicendo che il sillogismo aristotelico è il cemento che tiene assieme le catene di ragionamento che usiamo per conoscere il mondo e che “questo modo di argomentare in forma lunga è ciò che consideriamo il ragionamento umano nella sua massima espressione”. Il che sembra suggerire che sia anche ciò che ci ha portato a identificare la conoscenza con la forma lunga e quindi a idolatrare il libro.
C’è qualcosa che non quadra. Credo che il riferimento al sillogismo e alla catena logica di argomentazioni sia fuorviante; innanzitutto perché tende a limitare il discorso a una porzione specializzata e ben delimitata della conoscenza, quella di tipo scientifico, basata su un linguaggio formalmente più rigoroso. E poi perché rischia di confondere due significati o due aspetti del termine “conoscenza”: semplificando un po’ rozzamente, da una parte c’è il modo in cui pensiamo; dall’altra c’è il modo in cui fissiamo, comunichiamo, tramandiamo i prodotti del pensiero. Potremmo dire: la conoscenza come processo soggettivo e la conoscenza come prodotto sociale e culturale. Conoscenza, cultura, significato: sono tutti concetti che presentano un’ineliminabile natura doppia, soggettiva e sociale al tempo stesso.
Il riferimento alla forma logica del ragionamento tende dunque a spostare l’attenzione sul modo in cui pensiamo, mentre tutto il discorso successivo riguarda l’aspetto culturale. Il tema del “come pensiamo” ha link molto interessanti con le idee sull’ipertesto che avevano i suoi inventori (Vannevar Bush e Ted Nelson) e con la scrittura e il suo rapporto col pensiero (McLuhan, Walter Ong, Jack Goody, Jay D. Bolter). Ma non ho intenzione di seguirlo ora. Preferisco chiudere con un punto provvisorio: non è il medium libro che ha un legame necessario con la forma logica del pensiero, ma un medium molto più antico e rivoluzionario: il linguaggio.
Possiamo allora rispondere alla domanda iniziale dicendo che il pensiero formale ha la sua più profonda radice antropologica nella trasformazione dei suoni della parola in segni, cioè nella nascita del linguaggio alfabetico che fa del linguaggo “un mondo di cose” distinto dal mondo reale (lo spiega in maniera complessa e affascinante Luigi Borzacchini, nel suo libro sulle origini del pensiero logico e matematico, Il computer di Platone). Il pensiero formale non può dunque avere preferenze tra forma libro e forma web (anche in quest’ultima la scrittura è imprescindibile); né sembra potere essere minacciato dal potere distraente e destrutturante del web.
In effetti, il discorso di Weinberger gira attorno a questo bersaglio polemico preciso: la tesi di Nicholas Carr secondo cui il web sta riducendo la nostra capacità di attenzione e quindi mettendo in pericolo il ragionamento umano incarnato nell’argomentare in forma lunga. Ma invece di “rispondere all’interrogativo se internet sia buona o cattiva per la conoscenza” (questione troppo ingarbugliata), Weinberger mostra che possiamo conoscere anche senza la forma lunga, anzi forse possiamo conoscere meglio, visto che il libro ha non pochi aspetti negativi (quelli positivi, come dice lui stesso, sono difesi implicitamente o esplicitamente in ogni aula scolastica, in ogni biblioteca pubblica, su ogni quarta di copertina).
Questo ovviamente non significa “i libri sono cattivi. La rete è buona”. Per Weinberger la forma ideale di discussione/argomentazione razionale sul web è un formato ibrido: pubblicare testi lunghi quanto basta per delineare in maniera chiara e completa un’idea, e poi lasciare libero accesso alla critiche e ai commenti, in modo che possano collaborare allo sviluppo dell’idea.
Il punto non è dunque la lunghezza in sé, né l’uso della sequenzialità logica, ma l’apertura precoce alla critica, molto più precoce rispetto agli standard della cultura del libro, e, soprattutto, un’apertura potenzialmente universale, come mai era stata possibile prima del web. Tra forma libro e forma web la differenza cruciale è allora tra una concezione idealmente individuale del processo conoscitivo e una concezione idealmente collettiva e dialogica.
Anche se la forma libro rispecchia prevalentemente la prima e la forma web la seconda, non c’è una vera contrapposizione. Come ho chiarito fin dal primo post, io la vedo così: il nostro modo di conoscere è da sempre reticolare, il web ha solo reso più evidente, realizzandola concretamente nella sua straordinaria infrastruttura, la dinamica reticolare della cultura. Ma il fatto che la semiosi sia fondamentalmente una ragnatela caotica (un labirinto del terzo tipo, un rizoma, un groviglio), non significa che non abbia delle zone strutturate, dotate di una forma riconoscibile e relativamente stabili, anche se sempre modificabili. Queste zone sono indispensabili per la conoscenza: anche se (o forse proprio perché) vive in una semiosfera rizomatica, essa ha bisogno di appoggiarsi a tali intelaiature, per quanto provvisorie.
Bisogna notare che nemmeno per Weinberger forma libro e forma web in realtà si contrappongono: la forma web è per sua natura inclusiva e può inglobare vantaggiosamente la forma libro; la quale però non può arrogarsi il diritto di possedere la verità, ma deve rimanere sempre aperta al dialogo.
E dove porta il dialogo? Qui c’è il punto cruciale: quale idea di verità e di dialogo dobbiamo far nostra?
Per affrontare un nodo così tosto, propongo di fare un’altra escursione di deepsurfing: dobbiamo risalire a un nodo molto antico del groviglio, dove si trova uno che su verità e dialogo aveva delle idee piuttosto solide, visto che continuano, volenti o nolenti, a modellare un buon pezzo del nostro senso comune dopo oltre duemila anni: Platone.
Platone visse tra il V e il IV secolo a.C., subito dopo l’età di Pericle. I suoi dialoghi sono un prototipo della forma lunga, ma potrebbero anche dirci qualcosa di interessante sulla forma web.
Com’è noto Platone si porta dietro un ingombrantissimo bagaglio metafisico (idolo polemico di gran parte del pensiero filosofico moderno); la sua dialettica ha però un grande pregio: quello di pensare la conoscenza (filosofica) non come un compito individuale e privato, ma come l’attività propria di una libera comunità che si sviluppa attraverso il dialogo. Platone è in un certo senso un filosofo della comunicazione (come spiega con grande chiarezza Ugo Volli nelle sue Lezioni di filosofia della comunicazione).
Lo si capisce bene se si considera il contesto in cui si sviluppa il suo pensiero: è il tempo e il luogo in cui era da poco nato il primo embrione della moderna democrazia. Nell’Atene di Pericle, pur con tutti i suoi limiti, vede infatti la luce un principio che era sconosciuto alle culture precedenti e circostanti: a comandare non era un individuo sopra gli altri, ma la Legge, scritta dopo una libera discussione tra pari le cui uniche armi erano la capacità retorica di persuadere. Il dialogo era la fonte del consenso; l’arte della retorica, la massima fonte della ragionevolezza; i sofisti, i massimi esperti di questa ragionevolezza basata sulla capacità di persuadere.
In questa società Socrate, protagonista dei dialoghi di Platone e suo alter ego, irrompe con una concezione del dialogo completamente diversa: per lui il dialogo non era il mezzo per far emergere l’opinione più persuasiva, ma per far emergere la verità: “la sua mira è la costruzione di un’autorità teorica che non permette evasioni o dissensi. La pena per chi non vi aderisce è la contraddizione interiore” (Volli). E questa autorità teorica non dipende dalla qualità retorica, ma dalla verità, che esiste ed è ben distinta dalle opinioni.
Il dialogo, per Socrate/Platone, non è retorica, ma maiuetica, l’arte della levatrice: serve ad estrarre (con l’aiuto di un maestro) la conoscenza vera, che una volta estratta si imporrà da sola, con la sola forza dell’evidenza; non bisogna affidarsi alla seduzione della retorica, ma portare il soggetto alla presenza della verità: la vedrà direttamente, con gli occhi della mente.
Questa idea di verità e di evidenza è il fondamento della metafisica occidentale, il grande mainstream che trova la sua consacrazione in Cartesio e arriva quasi indenne fino a Nietzsche.
E forse, in fondo, è a questa possibilità del contatto diretto con la verità da parte del soggetto che il medium libro deve il suo prestigio e la sua autorevolezza nella nostra cultura: la consequenzialità obbligata del libro e la sua chiusura non sono sentite come limiti imposti dalla tecnologia, ma come naturali conseguenze dell’idea che la verità si partorisce con un lungo travaglio individuale, che bisogna seguire passo per passo, secondo le indicazioni dell’autore, per portarla finalmente alla luce. L’autore non è solo la levatrice, ma anche il garante del procedimento. In un certo senso il libro (qui ovviamente sto considerando l’idealtipo del trattato saggistico, il medium principe della conoscenza classica) simula sempre il prototipo del rapporto dialogico tra maestro e discente fondato da Socrate-Platone: è la dialettica praticata assieme, modellando il discorso vivente, il vero metodo per raggiungere la conoscenza.
“Discorso vivente”: questa espressione – affiorata improvvisamente dall’iceberg sommerso su cui galleggia questo post – anticipa e spalanca un’altra vertiginosa superficie frattale, che richiede ovviamente un altro deepsurfing.
Me lo tengo per la prossima volta. Anticipo solo che, là sotto, troveremo l’idea che il libro sia un cadavere incapace di vera conoscenza (un bel paradosso per il primo grande filosofo scrittore!). E forse scopriremo che il vecchio Platone potrebbe essere – incredibile a dirsi – il primo teorico della forma web.
Forse lo ha già detto qualcun altro meglio di come farò io, ma credo che il linguaggio sia imprescindibile dall’idea stessa di coscienza individuale (niente dialogo, zero coscienza di esistere). Se, per ipotesi, si facessero crescere degli esseri umani senza insegnar loro il linguaggio, ma solo a seguire determinati condizionamenti (anche complessi), il risultato probabilmente sarebbero “animali umani” funzionali a vari compiti, ma non consapevoli di sè. Perché ho fatto questa tirata sul linguaggio? Perché data per acquisita la capacità “plastica” delle reti informatiche e quindi la positiva proliferazione della conoscenza, ciò che invece pavento è la loro incorporeità materiale. Se in un prossimo futuro Fahrenheit 451 i libri fossero solo bit, sarebbe possibile salvarli dai solerti pompieri?
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Il concetto di coscienza è un maelstrom da cui il povero deepsurfer potrebbe non uscire più…
Mi limito ad osservare che il linguaggio non ha ovviamente nulla da temere dal web.
Diverso è il problema dell’obsolescenza digitale: per un verso è il problema che hanno sempre avuto i supporti materiali della scrittura, per un altro è un problema nuovo che attende soluzioni nuove. In teoria mi pare che la conoscenza in Rete sia più al sicuro dai pompieri di Fahrenheit 451, ma bisogna stare attenti ai grandi monopolisti del sapere come Google. “Nella biblioteca di Babele (di Borges) l’Uomo del Libro è un mito, un pericoloso oggetto di venerazione. Nelle nostre vite, Google sta rapidamente assumendo lo stesso ruolo” (Siva Vaidhyanathan, La grande G. Come Google domina il mondo e perché dovremmo preoccuparci).
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