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Monsieur Zero e il misterioso «oggetto X» che chiamiamo interpretazione

Piero Manzoni, Alfabeto, 1958 (dettaglio)

È appena uscito un piccolo libro, intelligente e divertente, su Piero Manzoni. S’intitola Monsieur Zero. 26 lettere su Manzoni, quello vero; lo ha pubblicato Italosvevo in una collana dal titolo delizioso «Piccola biblioteca di letteratura inutile» e dal gusto antico (le pagine da tagliare!); lo ha scritto Andrea Cortellessa, che insegna letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma, al quale sono grato per le citazioni con cui ha onorato i miei testi su PM pubblicati su Doppiozero e Deepsurfing.

In copertina c’è un’opera poco conosciuta di PM: un “quadro bianco” del ’58 in cui sono stampigliate alcune lettere dell’alfabeto in stampatello, allineate come in un esercizio di calligrafia ma senza kalòsgraphos.

Da quest’opera prende spunto Cortellessa per costruire un saggio in forma di glossario: per ognuna delle 26 lettere dell’alfabeto sceglie una parola significativa per «l’artista più dirompente del suo tempo», che «ha perseguito con lucidità non inferiore allo stoicismo il “grado zero” dell’immagine».

Ed è in questo “grado zero” che si può trovare la risposta a una prima curiosità: perché uno studioso di letteratura, in una collana di letteratura, si occupa di un artista visivo? Perché l’opera di Monsieur Zero, oltre ad avere talvolta la forma di una “poesia visiva”, nasce in un certo senso come la traduzione in immagini di una certa poetica dell’azzeramento del soggetto che girava nell’aria letteraria del tempo: nel ’53 Roland Barthes aveva pubblicato Il grado zero della scrittura («una tabula rasa valoriale che coincideva con una zona di infinite possibilità d’esplorazione», come lo definise Cortellessa); nel ’56 nasce Il Verri di Luciano Anceschi, incubatore di quella neoavanguardia che di lì a poco esprimerà i Novissimi con la loro «riduzione dell’io» (come dice Alfredo Giuliani introducendo l’antologia nel ’61); nel ’58 è proprio Anceschi il primo critico che parla delle «allibite superfici di bianco assoluto» di PM, giovane pressoché sconosciuto che espone però assieme a maestri come Lucio Fontana ed Enrico Baj. Di alcuni di quei Novissimi, Balestrini, Porta e Pagliarani, PM è amico e compagni di serate in Brera e nel ’59 PM li pubblica sulla sua rivista Azimuth.

Nello “Zero” di PM Andrea Cortellessa vede anche uno spunto autobiografico, legato a letture esistenzialiste: il sentirsi un fallito che però non smette di tentare e, come dice Beckett: fallisce ancora, fallisce meglio.

Per l’arte visiva del tempo, però, Zero significa soprattutto il movimento che alcuni artisti del nord Europa (in particolare i tedeschi Mack e Piene) avviano verso la fine degli anni Cinquanta lavorando attorno all’idea di monocromo (in contemporanea con il lavoro di tutt’altro senso che faceva sul monocromo Yves Klein): per loro lo “zero” va inteso come «punto silenzioso e indefinito di trapasso da una concezione vecchia a una nuova, in cui tutto è ancora possibile ma tutto sta per accadere». Ed è qui che, giocando con la struttura ipertestuale mimata nel saggio, io propongo di inserire un link e aggiungere una voce che ritengo fondamentale per PM: la parola “catastrofe”.

PM è uno degli artisti del novecento in cui meglio si coglie quello “zero” come trapasso improvviso, come punto di catastrofe (nel senso della teoria matematica), dal paradigma moderno a quello contemporaneo. Nel suo percorso di ricerca artistica si vedono chiaramente le piccolissime variazioni che trasformano radicalmente il sistema. Basta che la Linea diventi «infinita», puro concetto certificato da un’etichetta sul simulacro di un astuccio, o che il Corpo d’aria diventi Fiato d’artista, ed ecco che dall’azzeramento dell’io si arriva all’artista che crea la sua aura, che inventa le sue “reliquie” scatologiche, che costruisce il suo “autoritratto funzionale” (la Base Magica), e il suo monumento definitivo (il Socle du monde). Paradossalmente – e catastroficamente – il “grado zero” dell’immagine e del soggetto diventa il “brand che crea un’atmosfera». Non è un caso che proprio in quegli anni e proprio a Milano inizi l’età dorata della pubblicità italiana.

Anche se PM non abbandona il moderno (dato che continuerà a fare Achromes per tutta la sua breve vita), di certo inaugura, in molti dei suoi aspetti decisivi, il contemporaneo profetizzato dal grande precursore Duchamp.

Sono partito dalla fine del saggio, la voce «Zero», che esplicita il senso del titolo; ma da qui parte un altro link che ci riporta all’inizio, alla voce «Alfabeto», da cui il saggio prende avvio (inopinatamente, dato che uno si sarebbe aspettato un ovvio «Achrome»).

Qui l’autore nota come la scrittura sia sempre presente nell’opera di PM, anche se egli «si rifiuta di dire alcunché» («Non c’è nulla da dire, c’è solo da essere, c’è solo da vivere»). Ci sono le etichette sulle Linee, le Merde d’artista, la Base Magica, il Socle; ci sono le firme e i certificati per le Sculture viventi; ma ci sono anche le istruzioni per l’uso e ovviamente i titoli. Tutte queste scritte non sono parerga: fanno parte integrante delle opere visive. Dopo il salto catastrofico, PM si trova in un paradigma in cui è fondamentale creare «a new THOUGHT», come diceva Duchamp del suo orinatoio. E i pensieri, i significati, non sono misteriosi caciocavalli appesi nel vuoto dell’Iperuranio, ma tracce concrete, segni nella materia. Segni che rimandano sempre ad altri segni. L’alfabeto – cioè il linguaggio, il segno scritto, la traccia – è sempre indispensabile all’arte contemporanea; e lo è in un senso che va oltre ciò che è messo in atto dall’artista, perché di segni-interpretazioni è fatta anche la metà dell’opera che spetta allo spettatore-interprete (Duchamp docet, ancora una volta). Non è un caso che, in prossimità del punto di catastrofe, ci sia una tendenza alla tabula rasa: l’amor vacui s’incastra perfettamente con la vis interpretandi (ovvero «il vuoto è generatore di glossa», come sintetizza Nathalie Heinich).

Continuando il mio surfing nell’ipertesto di Monsieur Zero, dai segni dell’alfabeto e dalla vis interpretandi suggerisco un link a un’altra voce originale di questo glossario manzoniano: la «X». Andrea Cortellessa chiama «oggetti X» i contenitori sigillati di PM, le Linee e le Merde, nei quali avviene «l’inscatolamento e l’occultamento dell’opera (presunta) in un’altra opera (effettiva)». E li accosta all’oggetto misterioso che Buñuel mette in scena nel film Bella di giorno, quello che il cliente asiatico tiene in una scatola e mostra a Catherine Deneuve ma non allo spettatore. Non si tratta, ovviamente, di immaginare cosa c’è dentro il barattolino o chiedersi se dentro all’astuccio ci sia davvero una linea lunga n metri. Qui è in gioco l’idea del MacGuffin di Hitchcock, il motore narrativo che tiene avvinto lo spettatore (come fa il Sarchiapone nel famoso sketch di Walter Chiari). Andrea Cortellessa propone di interpretarlo come un’«allegoria dell’interpretazione»: gli oggetti misteriosi di PM sono ami gettati perché vi s’infilzi il gesto interpretativo del critico. È l’anima da trickster che pulsa indubbiamente nel Pierino dell’arte contemporanea italiana, ma secondo me c’è dell’altro. Certo, il barattolino scatologico può essere legittimamente interpretato come una trappola tesa all’arroganza ermeneutica, vista come azione dannosa o irrilevante al fare artistico (Andrea Cortellessa cita Villa che scrive a PM: «i critici sono la merda»). Eppure io credo che la «X» possa essere interpretata in un senso più positivo.

In fondo, ogni (vera) opera d’arte è un «oggetto X», anche quando sembra non celare alcun contenuto occulto.

Andrea Cortellessa ha confessato di aver cominciato ad appassionarsi a Piero Manzoni dopo aver visto la retrospettiva milanese a Palazzo Reale curata da Flaminio Gualdoni all’inizio del 2014. È successo lo stesso anche a me. In quel periodo stavo studiando La trasfigurazione del banale di Arthur Danto e mi aveva colpito una curiosa analogia tra la sua teoria e la Base Magica. Semplificando in una formula, per Danto l’opera d’arte (OdA) è il risultato dell’applicazione di una funzione f a un oggetto o, cioè: f(o) → OdA; dove f è il significato-interpretazione incarnato in OdA. La Base Magica, in un certo senso, sembra rappresentare questa funzione f. Bisogna spostare lo sguardo dalla luna al dito e vederla come una macchina per produrre readymade. Il piedistallo rappresenta l’azione di messa in cornice (framing) e dimostra che ciò che importa non è tanto il cambiamento di status dell’oggetto (l’“artificazione” della persona o della cosa che si pone sopra), quanto il ruolo determinante del soggetto: l’artista, di cui la Base Magica è una specie di alter-ego, funziona come un brand, un motore semiotico che crea valore comunicativo ed economico.

A questo punto, l’«oggetto X» nascosto “dentro” la Base Magica può manifestarsi sotto forma di domanda: di cosa è fatta la “magia” di un artista? Come funziona il “brand che crea un’atmosfera”?

E qui torniamo all’idea di interpretazione da cui siamo partiti. Si può considerare l’interpretazione del critico soltanto come uno strumento di marketing che crea il “brand” e rintracciare le strategie comunicative e le relazioni di potere all’interno del sistema dell’arte (spesso fieramente osteggiato dagli stessi artisti che vi prosperano). Oppure si può considerarla come la porzione di semiosfera che si addensa attorno all’artista, alle sue opere, alla sua vita. La ricchezza e la capacità “germinativa” di questa porzione di semiosfera dipende da molte cose, ma, come sanno bene i pubblicitari, senza un buon prodotto nessuna strategia regge nel tempo. E il prodotto, come ci ha indicato PM con le sue opere “contemporanee”, è l’artista. La sua è una “magia” che si rivela pienamente soltanto nel tempo.

L’«oggetto X» che la Base Magica nasconde con un arguto detournement è la metafora di questa magia che in mancanza di meglio chiamiamo “interpretazione”. E a cui contribuiscono, nel loro piccolo, anche queste righe.