Archivio mensile:Maggio 2015

Raccontare buone vite. Con un tocco di esotismo

Il mio primo vero viaggio l’ho fatto a 17 anni. Era la primavera del ’75. Don Mario, il giovane curato del mio paese, mi fa: “Ti va di fare un viaggio in Oriente?”.

Partimmo in cinque, su un pulmino Wolkswagen. Attraversammo la Yugoslavia, la Bulgaria, un pezzo di Grecia. Ci fermammo qualche giorno a Istanbul. Poi tutta la Turchia, toccando il mar Nero, attraversando il deserto dell’Anatolia orientale e costeggiando il monte Ararat. E infine l’Iran, quando ancora c’era lo Shah, con soste a Tabriz e Teheran. Quasi 10.000 chilometri, tra andata e ritorno. Tornando indietro, a un bivio prendemmo la strada sbagliata e invece di riattraversare il deserto finimmo – magnifica sorpresa! – sulle rive di un mare: era il mar Caspio. Ricordo una gran corsa al tramonto sulla vasta battigia di sabbia e un bagno ristoratore. E il giorno dopo, per tornare sulla retta via, un altro colpo di scena memorabile: dopo un’ora di tornanti che salivano dal mare in mezzo a una vegetazione lussureggiante, arriviamo in vetta e davanti a noi, invece di un panorama alpino, si spalanca un deserto, con tanto di cammelli e pastori con turbanti!

Poteva essere l’inizio di una vita on the road. Purtroppo, quello è stato il mio primo e ultimo vero viaggio d’avventura. Tutti quelli che ho fatto in seguito sono stati per turismo o per lavoro, anche se per alcuni anni, durante l’università, ho vagheggiato, come molti, un altro vero viaggio in India.

Baba Shiva Das

Per questo mi ha molto colpito il film che ho visto qualche giorno fa. S’intitola The Good Life ed è stato girato da Niccolò Ammaniti. Ammaniti è uno scrittore (un abile scrittore di successo, autore, tra l’altro, di Io non ho paura e di Come Dio comanda, portati al cinema da Salvatores). Ma qui non è lui il narratore; lo sono i tre personaggi del suo film, che non sono inventati, perché The Good Life è un documentario. L’abilità dell’autore è stata nello scovarli e nel farli raccontare, in modo semplice e diretto, della loro esperienza. Certo, si racconta anche col montaggio, le inquadrature, la scelta d’atmosfera di un certo luogo e di un certo momento. Ma la sobria eleganza di questo lavoro documentaristico, quasi un ritrarsi dell’autore, è un riconoscimento della forza di questi tre narratori. Il cui dono è proprio quello che Walter Benjamin riteneva tipico dei narratori, e ormai in via d’estinzione: l’esperienza. Lo spiega, con la sua prosa acuminata e poetica, in un piccolo, prezioso saggio intitolato Il narratore (ripubblicato da Einaudi nel 2011, con un magistrale commento di Alessandro Baricco)

In tedesco ci sono due parole per dire “esperienza”: Erlebnis ed Erfahrung. L’Erlebnis è il vissuto del momento, il contenuto puntuale della coscienza; l’Erfahrung indica invece una capacità acquisita nel tempo, un percorso fatto di esercizio e memoria. L’accelerazione costante in cui viviamo ci porta a collezionare un’enorme quantità di esperienze-Erlebnis, pronte a diventare selfie da postare su Facebook. L’esperienza-Erfahrung, che si sedimenta lentamente, è invece la materia su cui lavorano da sempre i narratori, le cui figure archetipiche sono quella del viaggiatore e quella del contadino che fa filò nelle sere d’inverno, e poi quella del maestro artigiano medioevale, che fonde le due figure perché è stato garzone errante nella sua gioventù.

I tre personaggi del documentario di Ammaniti sono narratori improvvisati, ma quel che colpisce è la qualità della loro esperienza-Erfahrung e il modo piano e antieroico in cui la raccontano. Anche loro, come il narratore-artigiano di Benjamin, hanno viaggiato e poi si sono fermati in un posto, accumulando esperienza e saggezza.

Eris

Lo sfondo comune delle loro esperienze è l’India, dove tutt’e tre vivono, meta finale di una fuga e di una ricerca di “buona vita”. La fuga è quella dall’Italia degli anni Settanta, dalle convenzioni e dalle anguste prospettive della provincia, forse all’inseguimento del mito hippy dell’India, di certo con la voglia di cercarsi una vita alternativa.

Per molti quel mito è stato solo un cliché romantico, una bolla destinata a scoppiare a contatto con la realtà. Ma per i tre personaggi di Ammaniti è stata una vera conversione, perché l’India, in fondo, ce l’avevano dentro. Due sono diventati dei Baba, dei santoni riconosciuti e rispettati; il terzo, dopo aver fatto per anni il nomade con la sua famiglia, è diventato il capo di una piccola tribù che vive costruendo case tradizionali himalayane.

La loro India è stata soprattutto una scelta di libertà. Baba Shiva Das, fuggito da Vicenza su un pulmino Wolkswagen, dice che l’India “lo ha salvato”, lo ha lasciato essere quello che voleva essere, lo ha lasciato vivere come voleva, senza mai giudicarlo od ostacolarlo. Baba Giorgio, “un povero cristo che è nato nella città di Torino”, ha seguito una voce che lo chiamava verso un posto molto lontano e dopo mille peripezie e dopo essere stato chiuso in una buca per 41 giorni senza mangiare, ha trovato la sua “buona vita” diventando un sadhu, l’asceta custode di un piccolo tempio dedicato a Shiva. Eris è fuggito ragazzino dal trevigiano, ha girato tutto il mondo facendo i lavori più disparati, finché in una zona mite alle pendici dell’Himalaya ha trovato il suo spazio per vivere come voleva, come un pioniere, a capo di una piccola tribù di figli naturali e adottivi.

Colpisce, nelle storie di questi tre narratori, il coraggio di andare fino in fondo. E la constatazione che, in fondo, quell’ideale giovanile e avventuroso di libertà si è trasformato in qualcosa di stabile, forte e, in un certo senso, quasi opposto. I due santoni hanno messo radici in una religione dominata dal rito, la ripetizione minuziosa e quotidiana di gesti e parole. Lo dimostra il primo racconto che inizia con le abluzioni rituali mattutine nel fiume e finisce di notte, di fronte al fuoco, col barbuto Baba vicentino che salmeggia la puja e versa incensi imitato dai suoi giovani discepoli. Nel terzo oltre agli incredibili riti ascetici, scopriamo come il barbuto Baba torinese, dopo vent’anni, riallaccia il rapporto con la mamma: le ultime immagini lo mostrano mentre la saluta affettuosamente al telefono. Infine, la metamorfosi ideologica apparentemente più drastica: Eris il trevigiano, nomade anarchico, fiero oppositore di ogni imposizione, denigratore dell’istituzione scolastica con toni da Ivan Illich, spiega che la sua vita da nomade ribelle (così diverso dall’italiano medio che ribelle non sarà mai), lo ha portato ad adottare “le vecchie leggi della vita”: il capo è il capo. Ci sono le pecore, il cane e il pastore: ognuno porta il suo peso e svolge il suo ruolo. Per evitare il caos, le pecore non devono avere potere decisionale. La sua storia finisce parlando della morte, dalla cui paura si sente definitivamente liberato: “Sento l’incredibile invulnerabilità che mi porta la coscienza che sto andando verso la morte”. Molto nietzscheano, verrebbe da dire. E valido solo nel suo avamposto da pioniere. Le ultime immagini lo mostrano mentre prende in braccio la figlia e balla.

Baba Giorgio

Nell’ultimo capitolo del suo saggio, Benjamin si chiede “se il rapporto che il narratore ha con la sua materia, la vita umana, non sia anch’esso un rapporto artigianale. Se il suo compito non sia proprio quello di lavorare la materia prima delle esperienze (…) in modo solido, utile e irripetibile”. E conclude scrivendo: “Così considerato, il narratore entra fra i maestri e i saggi. (…) Il suo talento è la sua vita; la sua dignità quella di saperla narrare fino in fondo”.

Se Benjamin ha ragione, i narratori di The Good Life rimangono dei narratori in potenza, che si sono limitati ad estrarre la materia della loro propria vita e farne qualcosa di solido per se stessi. Ma forse le loro esperienze, per quanto irripetibili, hanno qualcosa di utile anche per noi: il coraggio e la determinazione d’inventarsi la propria vita, come l’artigiano inventa e lavora la sua opera.

Infine, una presa di distanza: il fascino bovaristico di una vita diversa, l’esotismo dell’India, il romanticismo dell’avventura conferiscono molto glamour al lavoro di Ammaniti. Ma quanto sarebbe stato più utile, vero e tagliente, un documentario su “buone vite” inventate dentro il nostro vero mondo, tra vite precarie, disoccupazione giovanile, caste finanziarie e nuove povertà?