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Paesaggi come abstrait trouvé

Mario Giacomelli, Presa di coscienza sulla natura (1976-90)

Mario Giacomelli, Presa di coscienza sulla natura (1976-90)

In un’antichissima caverna del Sudafrica, nel 2000, è stata trovato un frammento di ocra che ad oggi molti considerano il più antico artefatto umano senza evidenti scopi utilitari: su quel pezzo di pietra terrosa e rossiccia un Homo sapiens di 75.000 anni fa ha tracciato una griglia a motivi triangolari.

Questo reperto ci dice che tra le prime intenzioni formative nella storia della specie umana, tra i primi barlumi di un fare che noi chiamiamo “arte”, c’è un embrione di astrazione. Certo, con l’ocra grattata in quella grotta il nostro antenato potrebbe aver anche disegnato delle figure magiche. Rimane il fatto che i segni astratti rientrano in quella primigenia pulsione che l’antropologa Ellen Dissanayake chiama “making special”: all’Homo Sapiens la realtà ordinaria non basta.

Frammento di ocra con iscrizioni, Blombos Cave, ca. 75.000 a.c.

L’ocra di Blombos mi è venuta in mente mentre guardavo le fotografie di Mario Giacomelli in mostra al monastero di Astino, a Bergamo. Sono foto in bianco e nero, quasi tutte scattate da un piper che sorvola a bassa quota le piane e le colline coltivate delle Marche dove Giacomelli è nato nel 1925 e dove è morto nel 2000. La loro caratteristica sorprendente è che a prima vista non sembrano affatto paesaggi, ma composizioni astratte, incisioni, xilografie o grattage su fondo nero. La mancanza della linea d’orizzonte, il taglio delle foto e la stampa fortemente contrastata trasforma questi paesaggi aerei in opere grafiche dal sapore informale: è questa la loro forza. “Terre scritte”, suggerisce il bel titolo della mostra. A volte, in effetti, ricordano le righe serrate di antiche iscrizioni su stele di pietra. Ma più ancora sono terre incise, terre tracciate dalla luce e dall’ombra.

La fotografia è traccia: è luce che incide il buio. È un segno creato da un rapporto fisico col pezzo di realtà che la foto cattura; un rapporto concettualmente identico al lavoro di una selce appuntita su un pezzo d’ocra, di uno stilo su una tavoletta di cera o di un bulino su una tavoletta di legno. Solo che l’intenzione formativa non è più nella mano dell’artista, ma nella scelta del frammento di realtà. In questo senso, la fotografia è sempre un readymade, più o meno aiutato. Nel caso di questi lavori di Giacomelli – lontanissimi dall’indifferenza estetica di Duchamp – sarebbe meglio dire che la fotografia è sempre un objet trouvé, capace, come l’oggetto surrealista, di evocare associazioni e affinità nascoste. O meglio ancora: un abstrait trouvé, perché il fotografo sceglie e ritaglia un pezzo di realtà per risvegliarne le potenzialità astratte. E poi usa la luce e l’ombra come medium per farne emergere la qualità grafica e materica: lavora in camera oscura sulla grana dell’immagine, accentuando il contrasto fino a eliminare quasi del tutto i grigi e i micro-dettagli più naturalistici.

Non è una novità che la fotografia, nata come perfetta realizzazione della mimesi, sappia trasformare la realtà nei modi più vari. L’astrazione comincia con la selezione, col taglio che elimina il contesto, il tempo e il corpo-vedente. Lo mostra già Paul Strand nel 1916 con le sue famose Ombre nel portico. E Alfred Stieglitz, che negli anni Venti, trasforma le nuvole in composizioni proto-materiche (Equivalents).

Alfred Stieglitz, Equivalent, 1925-30

Giacomelli viene invece dalla stagione dell’informale italiano. Nelle sue foto l’astrazione non è soltanto ricerca formalista, ma mantiene un profondo significato umano, perché nasce dal rapporto con la “madre terra”, nella quale la presenza dell’uomo è sempre evidente proprio nel carattere di traccia artificiale sulla natura. Le “terre” di Giacomelli sono “scritte” in primo luogo dalle incisioni che il lavoro agricolo opera sul fondo informe del terreno incolto. In certi casi – come ricordano nel bel catalogo i curatori Corrado Benigni e Mauro Zanchi – è lo stesso fotografo a chiedere ai contadini di arare o solcare il terreno seguendo tracciati insoliti, sghembi, curvi, circolari. L’immemore fatica del contadino, che trasforma in cibo la terra, trova un punto di coincidenza con la ricerca formale dell’artista, che trasforma quella fatica in segno, in composizione astratta.

Il fotografo usa i campi arati e le irregolarità del territorio come un repertorio di forme: i solchi dell’aratura diventano tratteggi e striature; i covoni, buchi slabbrati (come quelli di Fontana); i filari, gigantesche impronte digitali. Lo stesso Giacomelli accosta la sua terra vista dall’alto alle mani rugose dei contadini: “Guardando le mani del contadino e la terra che lui lavorava, mi accorgevo che erano fatte della stessa materia, con gli stessi segni”. I fossi sono le “vene della terra”; le carrarecce, cicatrici.

Alberto Burri, Sacco e oro, 1953

Non a caso il fotografo ha chiamato questi suoi paesaggi più astratti “prese di coscienza sulla natura”. In precedenza aveva esplorato i paesaggi delle sue radici contadine stando coi piedi per terra, sulle cime delle colline (Storie di terra, Metamorfosi della terra). Ma è soprattutto con questa serie che emerge la sua profonda affinità con Alberto Burri. “Guardando le opere di Burri io sento fortemente il paesaggio, come forza, come idea di partenza, per lui come per me”. In effetti, basta convertire mentalmente in bianco e nero i Sacchi di Burri per vedere quanto le Prese di coscienza del fotografo riecheggino la più famosa serie del pittore. (I Cretti, invece, nonostante l’affinità tematica, mostrano un atteggiamento mimetico che è esattamente opposto all’astrazione cercata dal fotografo).

Sorvolando la tela immensa del territorio e incorniciandone porzioni con l’obiettivo, Giacomelli usa gli appezzamenti, i solchi, i fossi, le ombre, come Burri usa i sacchi, gli strappi, le fibre della iuta. In entrambi le composizioni non hanno un centro o un nucleo generativo e il rettangolo che le delimita sembra sempre suggerire un continuum illimitato; in ogni immagine c’è allo stesso tempo ordine e disordine, forma e informe, equilibrio e tensione. Burri amava citare una frase del fisico Freeman Dyson, che, a suo parere, rispecchiava con assoluta fedeltà la sua concezione pittorica: “La nostra stabilità è solo equilibrio e la nostra sapienza sta nel controllo magistrale dell’imprevisto”.

Mario Giacomelli, Motivo suggerito dal taglio dell'albero (1967-69)

Mario Giacomelli, Motivo suggerito dal taglio dell’albero (1967-69)

Il continuum illimitato e materico del reale che Giacomelli esplora con le sue foto astratte non è soltanto quello della sua terra natale che percorre a volo d’uccello. La tela della natura mostra le stesse potenzialità formatrice a qualunque scala. Lo fa anche nelle venature e nelle crepe dei tronchi tagliati che Giacomelli fotografa negli anni Sessanta, anch’essi in mostra a Bergamo (Motivi suggeriti dal taglio dell’albero). Ed è suggestivo notare le somiglianze tra le inquadrature aeree e le sezioni d’alberi. Il che dimostra che “nella natura, come nell’arte” sono all’opera “i medesimi principi formativi”, perché “la genesi della forma è “un processo universale” (Di Napoli, I principi della forma, Einaudi, 2011). Nel caso del fotografo marchigiano, l’occhio dell’artista cerca la genesi della forma in quel modo e in quella materia nella quale sente pulsare la vita umile e antica delle sue origini: l’uomo che lavora la natura e ritrova in essa la sua natura. Perché gli artisti, diceva Paul Klee, hanno il privilegio di riuscire a spingersi “in prossimità di quel fondo segreto dove la legge primordiale alimenta ogni processo vivente”.

(Mario Giacomelli, Terre scritte. A cura di Corrado Benigni e Mauro Zanchi. Complesso monumentale di Astino, Bergamo, fino al 31 luglio 2017).

Il sudario della Cosa-in-sé

Le divagazioni su Piero Manzoni iniziate nei due post precedenti mi hanno portato molto lontano. Ho finito per scrivere un piccolo saggio che sta cercando una vita editoriale più autorevole e visibile… Intanto proseguo qui le divagazioni, concentrandomi su una singola opera, che incarna al meglio il Manzoni interno al paradigma moderno.

1 Achrome

Achrome, 1958

Un quadro bianco, senza alcuna traccia di pennello e di colore. Ma non uniformemente bianco: una larga fascia orizzontale, da un lato all’altro, è segnata da sottili ombre che disegnano dei rilievi. La tela è infatti raggrinzata e le fitte pieghe irregolari, guardate da lontano, ricordano vagamente il panneggio marmoreo di una statua. Tuttavia non c’è la morbidezza del tessuto, la qualità scultorea di un panneggio: le pieghe mostrano piccole scabrosità, ponfi e fessure su cui sembra essere stato disteso uno strato denso di materia bianca. In effetti, più che a un tessuto, questa tela grinzata assomiglia a una parete intonacata con la calce. Anche il bianco non ha la purezza del pigmento o la brillantezza dello smalto: mostra piuttosto la leggera patina opaca e grigiastra che il tempo lascia su una materia grassa e terrosa.

Questa tridimensionalità della superficie stimola una visione tattile: porta ad avvicinare lo sguardo e trasformarlo in una carezza che esplora le pieghe e le scabrosità, che saggia la materialità allo stesso tempo concreta e astratta di questo strano quadro. Non è tessuto, non è tela colorata di bianco, né drappeggio scolpito. Non è nemmeno una superficie casuale e informe. È stata pensata e “costruita”, eppure sembra non voler dire, mostrare o rappresentare nulla.

Qualcuno potrebbe chiedersi: se non fosse esposto in una galleria, sarebbe un’opera d’arte? Sappiamo che delle persone autorevoli lo hanno ritenuto un’opera d’arte: anche senza che ce ne accorgiamo questa consapevolezza contribuisce all’aura del quadro. E l’aura diventa ancora più “spessa” se aggiungiamo che una variante di quest’opera è stata venduta nel 2013 per 12 milioni e mezzo di euro. Un’informazione che non può non influenzare lo sguardo!

Piero Manzoni realizzò questo lavoro nel 1958, a 25 anni; tre anni dopo sarebbe diventato famosissimo per la Merda d’artista, un’opera agli antipodi rispetto a questo enigmatico quadro bianco! Il suo titolo è Achrome, senza colore. Un nome neutro e oggettivo come il suo referente; un nome che non è solo descrittivo, ma anche prescrittivo, nel senso che stabilisce con laconica fermezza che il bianco del quadro non è un colore. Lo confermano anche le indicazioni dei materiali usati: tela grinzata, colla e caolino, che non è un pigmento, ma la polvere minerale usata per le ceramiche o gli intonaci.

Dunque, il titolo conferma l’idea che l’autore stia cercando di mostrarci un oggetto senza le qualità con cui solitamente lo vediamo e lo rappresentiamo. Secondo una terminologia introdotta dall’empirista John Locke si distinguono le “qualità primarie” dalle “qualità secondarie” di un oggetto. Le prime sono le sue caratteristiche fisico-matematiche misurabili scientificamente: dimensioni, peso, massa, ecc. Le seconde sono le caratteristiche che i nostri sensi attribuiscono all’oggetto: colore, sapore, odore, ecc.

Ecco, potremmo dire che l’autore abbia voluto realizzare l’impresa impossibile di svestire l’oggetto delle qualità secondarie e lasciarcelo vedere soltanto nelle sue qualità primarie: un oggetto nudo, quasi una kantiana Cosa-in-sé che si mostri senza il filtro del nostro sguardo. Quel bianco grigiastro può essere allora pensato come una luce pura, metafisica, la luce della mente che guarda l’oggetto senza aggiungere alcun filtro soggettivo, con la neutralità impassibile della scienza.

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Batteri e alghe al microscopio elettronico a scansione.

Forse l’analogia più appropriata per questa interpretazione così astratta e paradossale viene dalla scienza contemporanea. È quella con le immagini (come questa qui sopra) che oggi si possono ottenere grazie ai microscopi elettronici a scansione, che non usano raggi di luce ma fasci di elettroni.

Naturalmente questa analogia è un anacronismo: non poteva far parte del background iconico e culturale di Manzoni. Ma i riferimenti filosofici e scientifici non sono casuali. Il giovane Manzoni aveva iniziato gli studi di filosofia e in quegli anni era stato impressionato delle idee di Jung sull’inconscio collettivo e gli archetipi (avvicinate attraverso i Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, scritto da Jung con Kerényi). Come dice Michele Dantini: “Al tempo in cui inizia la produzione dei primi Achrome, nell’autunno del 1957, l’atteggiamento di Manzoni (…) è quello del ricercatore in laboratorio o dell’etnografo sul campo, a caccia di miti. Non interferire con l’esperimento (l’osservazione o la raccolta) è il solo obiettivo prefissato. I “risultati” attesi sono quelli che si auto-determinano”.

Inoltre Manzoni stava assorbendo come una spugna i vari influssi che circolavano nell’ambiente dell’avanguardia artistica dell’epoca, in cui affioravano tendenze antipsicologistiche e antiromantiche.

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Lucio Fontana davanti a uno dei suoi “concetti spaziali”

L’ambiente era quello milanese degli anni Cinquanta, dove dominava la figura di Lucio Fontana, amico e mentore del giovane Manzoni. Lo “spazialismo” teorizzato da Fontana, a partire dal Manifiesto Blanco del 1946, propugnava il superamento della pittura e un’arte “libera da qualunque artificio estetico” e nella quale “la conoscenza sperimentale sostituisce la conoscenza immaginativa”. Anche Manzoni nel 1957, in uno dei suoi numerosi manifesti teorici, scrive che “l’arte non è un fenomeno descrittivo, ma un procedimento scientifico di fondazione”. Per introdurre spazio e terza dimensione, Fontana aveva cominciato a bucare le tele già da alcuni anni: i suoi primi, famosi tagli risalgono proprio al periodo in cui Manzoni realizzava i suoi primi Achromes.

10 Burri, Two shirts

Alberto Burri, Two Shirts (1957)

Un altro padre dell’avanguardia italiana, Alberto Burri, aveva esposto nel 1957 alla Galleria del Naviglio un’opera che attirò sicuramente l’attenzione del giovane Manzoni: l’opera, intitolata Two Shirts (qui sopra), è una superficie bianca, ruvida e materica, su cui sono incollate delle camicie strappate, che disegnano squarci e pieghe d’ombra.

Ma nella genesi degli Achromes di Manzoni il riferimento più esplicito è quello all’artista francese Yves Klein, che negli anni Cinquanta aveva cominciato a realizzare quadri di un solo colore, steso sulla tela col rullo.

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Yves Klein, Monochrome (1957)

Nel gennaio del 1957 aveva presentato alla galleria Apollinaire di Milano la sua prima mostra tutta blu: “Proposte Monochrome, Epoca Blu”, 11 tele tutte del colore che sarebbe diventato la sua cifra stilistica (ma vendute a prezzi diversi a seconda della diversa “sensibilità pittorica” in esse contenuta). Manzoni sceglie il termine francese “achrome” proprio in contrapposizione ai “monochrome” di Klein: vuole segnare non solo la sua diversità, ma anche la sua maggiore radicalità, che spinge la sperimentazione ad annullare persino il colore.

13 Malevich 'Suprematist_Composition-_White_on_White, 1918

Kazimir Malevic, Composizione suprematista: Bianco su Bianco (1918)

L’idea della tabula rasa, dell’annullamento della rappresentazione pittorica, è tipica delle avanguardie artistiche del Novecento. Molti artisti hanno hanno cercato di esprimere il grado zero della pittura.

Nel 1918 Kazimir Malevic realizza Composizione suprematista: Bianco su Bianco, il primo monocromo bianco, in cui però rimane l’idea di composizione (il quadrato nel quadrato).

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Aleksandr Rodcenko, Colori puri (1921)

Più radicale il trittico di monocromi, i colori base rosso-giallo-blu, realizzato nel 1921 da Aleksandr Rodcenko, che teorizza la fine della pittura con parole simili a quelle che userà Manzoni: “E’ finita. (…) Ogni superficie è una superficie e non ci deve più essere rappresentazione”. Ma per l’artista sovietico l’artista avrebbe dovuto trasformarsi in un produttore per il trionfo del socialismo; per Manzoni la fine della pittura sarebbe stata invece una sfida per una rivoluzione permanente dell’arte.

14 Rauschenberg, White Paintings

Robert Rauschenberg, White Paintings (1951)

Cambiando continente e contesto culturale, nel 1951 Robert Rauschenberg crea i suoi White Paintings (qui sopra), che concepiva come vuoti. Con lui, al Black Mountain College, c’era John Cage, che nel 1952 inventa la sua tabula rasa musicale: 4’33”, un pezzo per pianoforte che si esegue aprendo una partitura senza note e rimanendo immobile, senza toccare i tasti, per 4 minuti e 33 secondi, in modo da lasciar sentire solo il silenzio e i rumori accidentali dell’ambiente. (Nel 1961 anche Manzoni progetta una composizione senza suoni che chiama “Afonia per cuore e respiro”). Le sperimentazioni di Cage e dei suoi compagni del Black Mountain College risentono dell’estetica del vuoto tipica del pensiero Zen (in quegli anni cominciavano i seminari alla Columbia University del maestro zen Suzuki, che ebbe molto influenza su Cage e altri artisti americani).

16 La vide

Yves Klein, Le vide (1958)

Una versione molto più retorica ed enfatica della stessa mistica domina la ricerca di Klein, esperto di arti marziali affascinato dall’Oriente; il quale, oltre ai Monochrome, nel 1958, espone proprio “Il vuoto” (Le vide): una galleria svuotata e dipinta interamente di bianco (qui sopra).

Ma l’urgenza di Manzoni aveva ben poco a che fare con la mistica zen. Ciò che spingeva la sua ricerca era piuttosto il desiderio di novità radicale e di farla finita con le vecchie concezioni artistiche, una pulsione tipica delle avanguardie del Novecento.

Negli Achrome è evidente il rifiuto della rappresentazione e la ricerca di una pura presenza, che si manifesti da sé. Il bianco non è una scelta espressiva, ma è un non-colore che mostra appunto la nuda presenza dell’oggetto-quadro senza alcuna mediazione dello sguardo e del gesto “estetico” dell’artista. Si direbbe che Manzoni cerchi di annullare l’occhio dell’io per far apparire la luce pura di un esso: il fantasma della Cosa-in-sé, avvolto in un sudario immobile e impassibile.

La parola “sudario” non è casuale. In effetti c’è qualcosa di funebre, in questo quadro: le pieghe livide e irrigidite di un sudario, la calce su un sepolcro imbiancato, la fredda lontananza di un cadavere, oggetto spogliato delle sue qualità umane.

17 Cristo velato

Giuseppe Sammartino, Cristo velato (1753)

Viene in mente il Cristo velato di Giuseppe Sammartino (1753), nella famosa Cappella Sansevero a Napoli. Secondo una leggenda furono oscure arti alchemiche a rendere possibile la magistrale resa del velo sul corpo di Cristo: il commitente, Raimondo di Sangro, principe di Sansevero e famoso alchimista, avrebbe insegnato allo scultore la calcificazione del tessuto in cristalli di marmo.

In un certo senso è proprio quello che, più prosaicamente, ha fatto Manzoni con una tela e un semplice bagno di colla e caolino. La differenza ovvia è che qui, col rifiuto della rappresentazione, è scomparso anche il corpo morto.

Ma questa scomparsa non è affatto banale, perché rappresenta un’altra scomparsa, perfettamente speculare, alla quale Manzoni dichiara di aspirare: quella dell’artista, della sua mano, della sua soggettività, del suo stile. Un intento paradossale, che assomiglia molto al tentativo di saltare sulla propria ombra. Infatti, per eliminare l’intenzione soggettiva e la rappresentazione, l’artista deve comunque lavorare mediante un’intenzione e una rappresentazione: con la tela bianca, grinzata e impregnata di caolino, intende rappresentare l’oggetto privato dell’intenzione rappresentativa.

Ed è proprio in questa tensione paradossale che sta la forza simbolica-concettuale di questa opera.

Ecco cosa scrive Manzoni in “Libera dimensione”, testo fondamentale pubblicato nel 1960 sul secondo e ultimo numero della sua rivista Azimuth:

Perché non cercare di scoprire il significato illimitato di uno spazio totale, di una luce pura e assoluta? (…) un quadro vale solo in quanto è essere totale; non bisogna dir nulla, essere soltanto. (…) le schiavitù del vizio soggettivo sono rotte; tutta la problematica artistica è superata. (…) Possiamo solo (…) tendere un’unica superficie ininterrotta e continua. (…) una superficie incolore che (…) è e basta. (…) Non c’è nulla da dire, c’è solo da essere, c’è solo da vivere.

Manzoni continuerà a lavorare sui suoi Achromes fino alla morte, realizzando numerose varianti. Ma tra quella da cui siamo partiti e le ultime, c’è di mezzo una vera rivoluzione, che nei post precedenti ho definito la doppia anima di Manzoni: il suo repentino passaggio dal paradigma moderno a quello contemporaneo.

La rivoluzione si realizza in due anni, tra il 1959 e il 1961, nei quali Piero Manzoni, oltre a scrivere manifesti teorici, aprire e chiudere una rivista e una galleria (Azimuth e Azimut), organizzare mostre, girare per l’Europa contattando artisti affini e partecipando a esposizioni, progetta e realizza le sue sperimentazioni più concettuali.

Gonfia dei palloncini e li mette in vendita come Fiati d’artista a 260 lire al litro; realizza le Linee, tracciate in rotoli di carta di varia lunghezza nascosti in contenitori cilindrici sigillati (di cui una lunga ben 7200 metri, sigillata in un contenitore di piombo); “consacra” delle Uova sode con la propria impronta e le fa mangiare o le vende in scatolette di legno; fa di modelle e persone comuni delle Sculture viventi firmandole o facendole salire su un piedistallo etichettato come Base magica; espone barattolini con l’etichetta “Merda d’artista, contenuto netto gr 30, conservata al naturale” al prezzo corrispondente in oro; costruisce una Base magica di bronzo con la scritta capovolta: “Socle du monde – Hommage a Galileo” e lo poggia a terra, in un giardino in Danimarca.

Tutti questi lavori rientrano nella produzione più concettuale e contemporanea di Manzoni: un fuoco d’artificio di invenzioni in cui c’è tutto il suo stile ludico, lo spirito burlesco e dissacrante del Puer; c’è la vena provocatoria e l’intento di crearsi una fama di scandalo. Ma c’è anche molto di più. Per quasi tutti, ai suoi tempi, e per tantissimi ancora oggi, sono “trovate” goliardiche di un eccentrico mattacchione, frutto di una gratuita ricerca d’effetti. Eppure dietro di esse c’è una ricerca artistica profonda e coerente, ci sono implicazioni filosofiche e socioculturali, e una dimensione poetica e metaforica affascinante.

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Piero Manzoni, Achrome con michette

La svolta concettuale influenzerà anche la ricerca sugli Achromes. Tra le varianti più lontane da quella che abbiamo analizzato c’è quella con le michette ricoperte di caolino e quelle coi pacchetti di carta, sigillati con corda e piombi doganali. Questi ultimi sono stati parodiati da Sergio Vanni, innocuo inventore di gag visive sull’arte contemporanea .

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Sergio Vanni, L’arte è un pacco

In un certo senso è vero: l’arte concettuale di Manzoni è stata veramente un pacco, un pacco esplosivo indirizzato ai mercanti d’aura e ai collezionisti sedotti dal feticismo del marchio oggi più esclusivo e lussuoso: il marchio “Arte”. Purtroppo, solo pochi anni dopo sarebbe diventato chiaro che “i gesti rivoluzionari, nella nuova società dei consumi, andavano a colpire una conservazione così duttile e smaliziata da far proprio ogni elemento di disturbo, e fagocitare ogni proposta di eversione immettendola in un circolo dell’accettazione e della mercificazione” (Umberto Eco, Il Gruppo 63, quarant’anni dopo).

Alla fine, i “pacchi” di Manzoni non sono esplosi in faccia ai mercanti d’aura. E perfino la famigerata Merda d’artista, dopo qualche decennio si è rivelata una profezia che si autoavvera, diventando ben più preziosa del suo controvalore in oro.

Io credo tuttavia che l’anima più profonda del Manzoni “contemporaneo” non sia tanto quella del guerrigliero-burlone, quanto piuttosto quella dell’esploratore dello status d’artista nel “regime di singolarità” che domina il paradigma contemporaneo (Nathalie Heinich, Le paradigme de l’art contemporain). Ma questa è un’altra storia.

Comunque, sospeso tra il paradigma moderno e quello contemporano, Piero Manzoni non ha mai smesso di “lasciar essere” i suoi Achromes, fino alla notte del 6 febbraio del 1963 in cui un infarto e gli eccessi dell’alcol lo stroncarono nel suo studio di Fiori Chiari.

Tutto questo non si vede nel quadro che abbiamo cominciato a guardare all’inizio. Lo si scopre soltanto esplorando le relazioni complesse che lo legano al suo autore, al suo tempo, ad altre opere e ad altri testi; rovistando cioè tra i mille fili di quel groviglio nel groviglio che è il mondo dell’arte del Novecento.