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Vita d’artista: godimento del sacrificio o significato incarnato?

Lettera a Sergio Benvenuto.

Due anni fa sul sito Antinomie, lessi un piccolo, interessante saggio di Sergio Benvenuto sulla trasformazione dell’aura benjaminiana nell’arte del Novecento. Mi colpì soprattutto perché conteneva alcune intuizioni che, pur essendo molto vicine a idee su cui avevo riflettuto e scritto negli ultimi anni, venivano motivate e inserite in un contesto teorico che era fortemente dissonante rispetto al mio.

Questo mi spinse a scrivere a mia volta un piccolo saggio, nel quale esponevo le mie critiche all’impostazione di Benvenuto e riprendevo quelle sue osservazioni dal mio punto di vista, che si basa sul paradigma post-duchampiano e su una reinterpretazione del pensiero di Arthur Danto (punto di vista che avevo delineato nel mio Catastrofi d’arte).

Benvenuto rispose subito al mio saggio, con una replica che purtroppo mi sfuggì e che ho scoperto casualmente solo alcuni giorni fa. Rispondo perciò qui, a due anni di distanza, sotto forma di lettera aperta.

Ecco, nell’ordine, i link ai testi della nostra discussione, pubblicati tutti su Antinomie (nel seguito farò riferimento a questi testi coi relativi numeri):

1) Sergio Benvenuto, Il Reale nell’epoca della sua riproducibilità tecnica
2) Luigi Bonfante, L’aura ambigua dell’arte contemporanea
3) Sergio Benvenuto, Nell’arte, l’essenziale non è l’essenza

Caro Sergio Benvenuto,

vorrei iniziare da una cosa che, sorprendentemente nella tua replica (3) non c’è e che mi ha creato un forte disappunto: una discussione sul tema centrale del mio commento (2) al tuo saggio (1). Un silenzio che mi ha sorpreso anche perché, nonostante l’impostazione fortemente critica, io partivo, come dichiaravo fin dall’inizio, dall’interesse che mi avevano suscitato «alcune intuizioni acute» sulla vita d’artista come fulcro dell’arte contemporaneo.

Tuttavia, prima di riprendere questo tema assente, vorrei ribattere alle osservazioni che hai esposto nella tua replica un po’ divagante, seguendo l’ordine in quattro parti da te proposto (ai tuoi numeri romani ho aggiunto dei titoletti).

I. L’artista contemporaneo «esibisce il proprio godimento nel sacrificio»?

Tu inizi con una sintesi della mia critica che trovo a dir poco sminuente: io sosterrei soltanto che la tua frase «gran parte dell’arte del Novecento modernista segna un ritorno alla dignità della práxis contro il feticismo “commerciale” della póiesis» è un’indebita generalizzazione perché l’arte ha continuato a produrre oggetti (in realtà la generalizzazione è dovuto ad altro: vedi al punto II); e alla tua tesi opporrei quella di Agamben, vedendovi una differenza che a te sfugge perché è in gran parte sovrapponibile alla tua. Mi sembra una semplificazione quasi denigratoria del mio testo, ma mi attengo alla tua scelta e tornerò sui punti cruciali della mia critica alla fine.

Sostieni che quella tua frase non è un’opinione ma quello che «l’arte moderna, anche esplicitamente, ha inteso fare». Ora, ciò che mi sembra indubitabile, e che non ho affatto negato, è che tutti o quasi gli artisti del Novecento, a partire già dai bohemien ottocenteschi, abbiano rivendicato una contrapposizione al feticismo commerciale. Quello su cui invece non sono d’accordo è il senso che dai alla praxis (che è appunto il tema fondamentale del tuo saggio).

Nella tua replica (3) ti limiti a dire che «il valore estetico non è da cercare nel prodotto stesso, ma nella praxis di cui l’opera è reliquia». “Reliquia” è un termine che anch’io ho usato a proposito di Piero Manzoni, un artista che ha lavorato in modo esplicito, ironico e dissacrante proprio sull’idea di opera come reliquia.1 Ma cos’è che conferisce valore alla reliquia? (Nella tua argomentazione, a un certo punto sembra che la mia critica si basi sull’idea banale che “l’arte comunque produce oggetti”, mentre in realtà «bisogna capire cosa dia valore a questi oggetti». Ovviamente anche per me, come ho appena detto, il punto è cosa dà valore agli oggetti artistici).

Per la tua risposta usi un esempio perfetto, quello delle teste di sangue di Marc Quinn: «È questa praxis – l’artista produce opera col proprio sangue – a dar valore al prodotto». Poi citi altri due artisti, Tehching Hsieh e Marina Abramovic, che fanno uso e abuso del loro corpo in azioni dal valore liturgico. (Lascio perdere il riferimento a Odo Casel e ad Agamben, sulla cui «scia» io mi porrei: tornerò alla fine anche su questo). E ne concludi che «l’evoluzione delle performances contemporanee è andata sempre più in un senso sacrificale, l’artista si esibisce come capace di affrontare sofferenze al limite della sopportazione umana», e che «il mercato dell’arte fa commercio di questi “atti di sangue”».

Qui indulgi (ancora una volta) a una generalizzazione infondata: la performance “sacrificale” ha avuto un suo periodo d’oro e alcune figure di spicco, come Chris Burden, Gina Pane, Vito Acconci, Orlan, Marina Abramovic; ma non mi risulta che ci sia un trend in atto. E soprattutto: la performance art e la body art sono solo una nicchia dell’arte contemporanea e le teste di Marc Quinn sono un unicum.

Comunque, rimaniamo al succo del tuo discorso: gli artisti mettono in gioco il loro corpo «perché sempre più si è affermato il valore “pratico” (da praxis) ed “energetico” (da energheia) del lavoro artistico»; «l’artista liturgico aspira alla gloria, […] attraverso il dolore della propria performance», non attraverso oggetti.

Questo varrebbe perfino nel caso di Duchamp e Cage, da me citati come artisti “euforici”, perché la « prova di dolore è in sostanza un piacere di ordine superiore che l’artista persegue. L’artista non fa godere gli altri dando loro a vedere oggetti belli o sublimi, ma esibisce il proprio godimento nel sacrificio». «L’artista si pone insomma come campione del godimento, godimento significato attraverso la sofferenza».

Ammetto che ci sia un piacere di ordine superiore nel sacrificio, ma mi sembra una forzatura ridicola arruolare tra gli artisti del sacrificio Duchamp e Cage, la cui vita e la cui opera dimostra in modo lampante che non hanno niente a che fare col sacrificio e l’abuso del corpo.

Credo che sarebbe un vantaggio anche per la tua tesi lasciar perdere il tema del sacrificio e concentrarsi sull’idea fondamentale: il «valore “pratico” (da praxis) ed “energetico” (da energheia) del lavoro artistico». Purtroppo lasci cadere qui il discorso, che era il tema fondamentale della mia analisi critica. Lo sospendo anch’io per seguire la tua replica.

II. Nel readymade non è il significante a venire in primo piano

Sulla distinzione tra paradigma moderno e contemporaneo parti da un malinteso e forse da una interpretazione fuorviante della mia critica (in 2) che era questa:

«nel Novecento non c’è un’«estetica prevalente»: ci sono molte estetiche diverse e, soprattutto, due concezioni generali molto contrastanti dell’arte, due paradigmi che hanno dominato rispettivamente la prima e la seconda metà del secolo. E solo per la seconda si può parlare, con le opportune precisazioni, di svalorizzazione dell’opera come oggetto. Ma soprattutto, questa svalorizzazione non dipende tanto dalla condanna dell’aura come feticcio, quanto dalla rivendicazione del carattere eminentemente concettuale del fare artistico inaugurata da Duchamp con quegli oggetti paradossali che sono i readymade».

Ho dunque sostenuto che nella tua analisi manca la distinzione cruciale tra paradigma moderno e contemporaneo. Non ti ho accusato di non aver visto il “moderno”, come dici tu. Invece parti proprio da questo, lancia in resta, per rivendicare l’estetica modernista, contro la sua riduzione a un banale concetto “psicologistico” di cui io sarei difensore, usando in realtà argomenti e riferimenti estetico-semiotici che in gran parte condivido.

Al malinteso, lo ammetto, ho contribuito anch’io, per un eccesso di sintesi: avrei dovuto specificare meglio il modo in cui Heinich usa il concetto kuhniano di paradigma (che nel mio testo è soltanto implicito nella distinzione tra “estetiche” e “concezioni generali”). La sociologa francese propone uno sguardo trasversale, da antropologo partecipante, che non tocca solo l’estetica, ma anche la sociologia, l’economia, il diritto. Quando, seguendo Heinich, scrivo che gli impressionisti, iniziatori del paradigma moderno, puntano a «esprimere l’interiorità unica dell’artista», mi riferisco all’idea che nel moderno l’artista esprime la propria singolarità (cioè la manifesta attraverso l’opera); per contro, nel contemporaneo l’artista produce la propria singolarità. Dove il termine “singolarità” è estetico-sociologico, non psicologico; “esprimere” indica che la singolarità deriva dal lavoro sull’opera e dal suo effetto sul pubblico; e“produrre” indica che la singolarità deriva dal lavoro dell’artista su se stesso e sulla sua immagine, prima ancora che sulla sua opera. (Per tutto questo rimando al testo di Heinich e alla mia recensione che uscirà prossimamente su Antinomie).2

Tornando alla tua replica, condivido la tua interpretazione estetico-filosofica del modernismo: lo «slittamento dell’arte verso il significante (verso l’arte che tematizza il proprio linguaggio)». Ma dissento con forza dalla tua idea che non ci sia «una coupure tra un primo modernismo e uno post-duchampiano».

Sono d’accordo sul fatto che nella pittura modernista «il significante si emancipa dalla funzione rappresentativa e si impone come vero oggetto di interesse»; e sul fatto che anche nel readymade l’oggetto «si trasmuta in significante». Questo però non significa affatto che ci sia solo un’inversione di strategia e che i pittori modernisti e Duchamp arrivino allo stesso risultato, cioè a far sì che sia «il significante comunque a venire in primo piano». Nel readymade non è il significante a venire in primo piano perché la qualità estetico-formale del segno (fulcro del modernismo, che Duchamp chiamerebbe “retinico”) non ha alcun interesse! Ciò che interessa a Duchamp è il new thought, cioè il nuovo significato che ha conferito a quell’oggetto; o meglio, il nuovo potenziale significato: un significato che sembra sospeso, come in un limbo. Probabilmente è proprio questo carattere potenziale e sospeso del significato a fartelo vedere come un “significante che viene in primo piano”. Ma il fatto che quel new thought sia indeterminato non vuol dire che dobbiamo concentrarci sulle qualità «scultoree o di design» dell’orinatoio (come tu stesso ammetti quando, all’inizio, usi uno straw argument per attaccare la sintesi surretiziamente semplificata della mia critica).

Si può anche sostenere, come scrivi tu, che «con Duchamp ci viene sbattuta in faccia l’arbitrarietà del significante, il fatto cioè che tutto può essere significante». Ma il punto, lo ribadisco, non è il significante, non è esibire le qualità estetiche di una cosa qualunque. È invece indicare nella scelta e nell’idea dell’artista (cioè nel significato-interpretazione) il valore dell’opera d’arte. L’orinatoio è un invito a vedere l’opera d’arte innanzitutto come pensiero: è questo il nucleo (metaconcettuale) del suo embodied meaning.

Da questo fraintendimento deriva il tuo ragionamento successivo. Dopo aver riconosciuto che la “svolta linguistica” del modernismo si è esaurita e che l’arte è entrata in un’altra fase, caratterizzi così questa nuova fase: «oggi sempre più si tende a insistere sulla crescente indiscernibilità tra oggetto reale e oggetto artistico».

L’indiscernibilità tra oggetto e opera d’arte è una questione cruciale per Arthur Danto e per la sua definizione dell’opera d’arte come embodied meaning (ma discuteremo di questo quando affronti il tema). Tu la traduci così: «Nella nostra terminologia: l’oggetto esterno diventa significante, ma anche il significante diventa oggetto esterno, cosa. Il significante straripa nel reale, lo invade». Qui non mi è molto chiaro cosa intendi per “significante”. Da quanto scrivi subito dopo, sembra sia l’artificiale vs il naturale, il virtuale vs il reale, forse lo spettacolo di Debord o i simulacri di Baudrillard. E quindi l’indiscernibilità sembra diventare la «confusione tra virtuale e reale» di Matrix.

In realtà, la questione dell’indiscernibilità nell’arte contemporanea non è «il corto-circuito tra φύσις e μηχανή» (come scrivi in 3), ma lo spostamento del fare e del valore artistico dalla “retina” alla “materia grigia”, per usare i termini un po’ caricaturali di Duchamp; cioè la prevalenza – non la sostituzione – del pensiero (del significato-interpretazione) sullo sguardo; dalla quale discende il fatto che, in certi casi, lo sguardo, da solo, non può più distinguere un oggetto artistico da un oggetto comune, perché non sono le caratteristiche formali dell’oggetto a determinare le sue qualità estetiche.

Maurizio Cattelan, All (Guggenheim Museum, 2010)

III. L’embodied meaning non è un concetto, ma un Artworld

La differenza tra noi non è dovuta a una questione generazionale, Sergio. Purtroppo non sono giovane: ho solo dieci anni meno di te e sono passato anch’io per la stagione del linguistic turn, di Wittgenstein e della filosofia del linguaggio che da lui ha preso avvio, di Rorty e della filosofia analitica, dello strutturalismo e della semiotica. Anche Danto viene dalla filosofia analitica (che ha arricchito con una cospicua iniezione di filosofia continentale). La sua “essenza” è in realtà il tentativo di individuare una condizione necessaria e sufficiente per definire un’opera d’arte, condizione che, peraltro, egli stesso ha ammesso di non aver trovato: alla fine il suo embodied meaning è una condizione necessaria ma non sufficiente. Io comunque non seguo pedissequamente Danto: non ritengo che la sua definizione valga o sia utile per tutte le opere d’arte in qualsiasi periodo, ma che sia un’ottima definizione per le opere del paradigma contemporaneo. Anzi, più che una definizione, la intendo come come un criterio da applicare a un continuum che va dall’opera modernista in cui il valore è tutto (o quasi) nella forma percepibile, all’opera puramente concettuale, in cui il valore è tutto (o quasi) nell’interpretazione di un oggetto-segno.

In ogni caso, ritengo doveroso spendere qualche parola per difendere la teoria di Danto, che a quanto pare non conosci.3 La formula «significato incarnato» è una sintesi schematica di una formulazione complessa in cui “significato” va inteso come interpretazione in senso molto lato, cioè come quell’«atmosfera di teoria e storia dell’arte» (Artworld, come lo chiama Danto) in cui rientra l’artista, la sua vita, la sua ouvre, il contesto storico-sociale-culturale, oltre alle interpretazioni e agli effetti prodotti dall’opera. Quanto al termine “incarnato”, esso indica che il significato è inseparabile dal corpo significante (l’oggetto, l’evento, il segno) che è sempre necessariamente presente, anche nelle modalità più inopinate, per quanto riguarda il paradigma contemporaneo.

Per me (e per Danto) il significato di un’opera d’arte non è «concetto» o un banale «contenuto»: non è un lemma di dizionario, qualcosa che funziona in base a un codice, una regola che correla rigorosamente un elemento (significante) a un altro (significato); non è la soluzione di una criptografia o di un gioco enigmistico. Se dovessi riformularlo con termini più consueti, direi che l’opera incarna un significato perché è un’unità inscindibile di materia formata e interpretazione. Se pensi davvero che il significato di tutte le Madonne col bambino dipinte nella storia sia sempre lo stesso, stai usando un significato di “significato” del tutto inadeguato a ciò di cui stiamo discutendo (e che potrebbe andar bene tutt’al più in un catalogo sommario, per soggetti, di dipinti religiosi). Ma forse qui ti sei fatto prendere dalla foga dialettica. Infatti è alle interpretazioni che ti riferisci, mi pare, quando parli di «alone semantico», di «sensi, aureole» e, più avanti, di «disseminazione di significati».

È del tutto comprensibile che, dal tuo punto di vista (che per me rimane all”interno del paradigma moderno), il significato o contenuto sia solo un «alone semantico» e che «ciò che conta in ogni arte è la sua musica, che non ha senso». È una formulazione molto suggestiva, che evoca un’analogia dalla lunga storia: culmina con l’estetica romantica, con Nietzsche e Walter Pater («Tutta l’arte aspira costantemente alla condizione della musica»), ispira molti pittori tra Ottocento e Novecento, tra cui Kandisky che inaugura l’arte astratta in nome dello “spirituale”… Ma è un discorso troppo lungo. Mi limito ad alcune considerazioni.

Tra le arti, la musica è quella più lontana dall’idea comune di “contenuto” o “significato”: la musica sembra un linguaggio puramente sintattico, forma priva di contenuto, come l’arte astratta. Perciò sostenere che «ciò che conta in ogni arte è la sua musica» è una professione di formalismo, cioè di modernismo (che in fondo è anch’esso un tentativo di esprimere una caratteristica “essenziale” dell’arte).

Per parte mia, credo che in ogni opera d’arte sia importante tanto la forma quanto il contenuto inteso come significato-interpretazione nel senso esposto sopra. Ci sono opere in cui prevale la forma e la sua “musicalità”; altre in cui prevale il contenuto e l’aura critico-ermeneutica. Queste ultime sono tipiche del paradigma post-duchampiano.

Tu però aggiungi: «Anche i significati contano quando sono bene orchestrati tra loro, quando funzionano come significanti. La musica ci dà una sensazione di senso, ma solo una sensazione. Ogni arte ci dà un affetto di senso». Qui non riesco a capire cosa intendi. Posso solo ipotizzare che con queste formulazioni tu alluda all’inevitabile compresenza di forma e significato nel lavoro dell’artista, che plasma allo stesso tempo l’una e l’altro, in modi infinitamente sottili e vari. Ma a giudicare dalla tua frase successiva, si direbbe che per te il significato-interpretazione sia qualcosa di esterno e successivo al lavoro dell’artista e inessenziale all’opera: «un atto artistico è un evento che apre a una disseminazione di significati, quindi è l’inverso di quello che dice Danto». E ancora: «La lettura dei significati è virtualmente infinita, per cui dovremmo dire che in ogni opera si incarnano significati infiniti».

Il fatto che la disseminazione sia virtualmente infinita non implica che tutte le interpretazioni siano ugualmente accettabili e rendano giustizia all’opera. Per Danto l’interpretazione «deve essere almeno in parte governata dalle credenze dell’artista»;4 e «la giusta interpretazione dell’oggetto-come-opera-d’arte è quella che coincide quanto più possibile con l’interpretazione dell’artista» (che non è la sua presunta “intenzione” consapevole).5 In generale, le interpretazioni sono sempre ipotetiche, ma le ipotesi hanno dei limiti di plausibilità che sono dati dalla coerenza con l’Artworld dell’opera, di cui fa parte anche l’autore e la sua ricerca in quel momento storico, la sua ouvre, la sua vita e il suo orizzonte culturale e artistico.6

Quanto all’interpretazione dell’orinatoio di Duchamp, prendo atto che la mia non ti convince. Ma la tua idea che Fountain «non ha alcun significato» mi sembra contraddittoria, perché dire che «annulla il significato funzionale di un orinatoio» e «ci fa riflettere sul senso in arte» è di fatto un significato-interpretazione (che coincide in parte con quella di Duchamp e con la mia). E contrapporre il gesto di Duchamp o l’evento “orinatoio” al significato non cambia niente: ogni fare artistico, ogni gesto, è sia evento che significato (mentre la gratuità morale di un gesto, a cui accenni come possibile contro-esempio, è un’altra cosa). Con Fountain e gli altri readymade, Duchamp ha introdotto un modo radicalmente diverso di fare arte; lo ha fatto con un gesto e producendo degli oggetti-segni, e il significato-interpretazione del suo gesto e di quegli oggetti-segni è anche quell’idea di arte radicalmente diversa.

Tu dici che ciò che importa è «chiedersi siamo disposti o meno ad accettare gli atti di Duchamp come eventi che modifichino la nostra idea di arte?». Giusto: chiunque voglia affrontare in modo non superficiale le sfide dell’arte contemporanea dovrebbe porsi una domanda del genere; ma tenendo presente che la storia dell’arte ha già dato la sua risposta da almeno sessant’anni: gli atti e gli oggetti-segni di Duchamp hanno di fatto modificato la nostra idea di arte.

Quanto alla tua interpretazione di Fountain come «centauro semiotico», «mezzo utensile, mezzo scultura», mi sembra contraddetta dallo stesso Duchamp: Fountain non è un oggetto che esibisce se stesso come dotato di qualità estetica, perché i readymade sono scelti proprio per la loro indifferenza estetica. Non è «mezzo utensile, mezzo scultura», perché in realtà non è né l’uno, né l’altro.

Infine, tornando alla definizione di Danto: sul suo carattere essenzialista mi sono già espresso sopra; e sulla contrapposizione con le somiglianze di famiglia di Wittgenstein, mi limito a rimandare quanto scrive lo stesso Danto in una decina di pagine ben argomentate del suo testo fondamentale.7

Non credo che la differenza tra noi sia quella tra un essenzialista (io) e un wittgesteiniano (tu). Non confido nelle “essenze”; e ribadisco che per me la teoria filosofica di Danto vale perché offre strumenti critici utili per apprezzare le opere del paradigma contemporaneo. Non la abbraccio in toto; anzi, credo che il suo risultato strettamente filosofico (la definizione necessaria-ma-non-sufficiente dell’opera d’arte) sia fin troppo limitato, anche sono molto interessanti le argomentazioni elaborate nella ricerca (anche in questo caso il cammino vale più della meta).

Giulio Paolini, Delfo, 1965 (dettaglio)

IV. Valore di mercato e valore estetico-ermeneutico

Sul mercato dell’arte in generale io non non sono affatto un “apocalittico”. Se (in 2) ho scritto che «l”opera d’arte, fagocitata nel sistema onnicomprensivo del mercato, reincarna la sua aura nel plusvalore simbolico che coincide con la “cornice discorsiva” creata dai mercanti d’aura», era per cercare di sintetizzare, in modo forse troppo concettoso, l’idea della rinascita dell’aura benjaminiana interpretata marxianamente come feticcio (che è proprio l’interpretazione da cui partiva il tuo testo originale).

Sono convinto che un sano mercato dell’arte sia importante, quanto lo sono una critica e dei musei che svolgano la loro funzione con autonomia e rigore. E non penso affatto che Gertrude Stein, critica e collezionista, abbia “fagocitato” Picasso, che era anzi un artista molto scaltro nel gestire i rapporti coi mercanti. Entrambi hanno contribuito a creare un nuovo mercato per le opere d’avanguardia (come ho scritto in 2).

È innegabile tuttavia il ruolo delle speculazioni finanziarie e del rapporto incestuoso tra critici, istituzioni e grandi galleristi all’interno di quella punta dell’iceberg in cui si fanno i grandi affari dell’arte contemporanea.8 E se è vero che in ogni epoca gli artisti avevano qualcuno che li pagava, il fatto che oggi siano soprattutto i collezionisti a incidere sul mercato ha degli aspetti fortemente negativi (contrariamente a quanto sostieni in 3), come spiega ad esempio Marco Meneguzzo in un suo libro recente.9

Che « la tensione continua ma fertile tra l’artista e il pubblico» sia «la matrice stessa dell’arte, in qualsiasi epoca» è una semplificazione eccessiva. In realtà, il rapporto tra artisti e pubblico è mediato da una serie di ambiti socio-economici diversi, la cui dinamica è descritta in modo molto più accurato dalle «cerchie di riconoscimento» di Alan Bowness, che visualizzano la forza degradante delle influenze: gli altri artisti, i mercanti e collezionisti, i critici e le istituzione, il grande pubblico. E nell’arte contemporanea, come spiega bene Heinich nel suo libro, la situazione è ancora più complessa.10 Di certo, non è il pubblico il “datore di lavoro” dell’artista odierno.

È sorprendente che tu dica che in me «opera una concezione incredibilmente romantica del genio dell’artista», quando invece sono convinto, come ho scritto (in 2), che esista una «lunga e complessa dialettica tra opera e merce che ha coinvolto l’arte fin dall’Ottocento, ha attraversato tutto il Novecento e continua ad essere incandescente ancora oggi», dialettica ben descritta qualche anno fa in un libro di Isabelle Graw.11

Condivido la tua considerazione finale (in 3), con una correzione però: credo anch’io che l’artista ambizioso non debba puntare ad assecondare, quanto a cambiare i gusti. Ma nel caso dell’arte non sono mai state le masse a decidere, e oggi non è necessariamente il mercato. Credo che per i giovani artisti d’oggi valga ancora quanto aveva insegnato Duchamp: non puntare al successo di mercato, ma andare underground; e aspettare che le interpretazioni, col tempo, maturino (la «posterità», diceva sornione il vecchio Duchamp).12 Sfidare il mercato e il “pubblico” puntando su tempi più lunghi significa certamente anche contare sulla gallina domani (il mercato futuro, più o meno lontano), ma soprattutto sul lavoro interpretativo di tutti gli spettatori specializzati che provano e proveranno a dipanare quegli strani, complicati grovigli di metafore incarnate che sono (o saranno) le migliori opere d’arte contemporanee.

Gianfranco Baruchello

Il tema centrale: la vita d’artista è brand o praxis poetica impregnata di significato?

Finita la mia contro-replica alla tua replica, ritorno al tema centrale accennato all’inizio.

Lasciando cadere, come fai anche tu nella tua replica (3), tutto il discorso relativo all’aura di Benjamin, la tua tesi (in 1) era che nel Novecento il valore dell’arte non è più nell’opera come oggetto, ma nella praxis dell’artista, ovvero la sua vita eticamente esemplare, in quanto opposta alla poiesis, ovvero al feticismo della produzione: «gran parte dell’arte del Novecento modernista segn(a) un ritorno alla dignità della práxis contro il feticismo “commerciale” della póiesis».

Come scrivevo (in 2): «ciò che è interessante e profondo della tesi non è tanto la pars destruens dell’oggetto-feticcio, quanto la pars construens dell’arte come praxis», che tu precisavi così: «nella modernità conta la práxis in quanto essa esprime la vita unica dell’artista»; ovvero la sua qualità eticamente esemplare: «quel che dà valore all’evento artistico (non più opera) è una eupraxía, un agire bene».

A tuo avviso questa eupraxia è il modo in cui l’aura benjaminiana rinasce, non più come aura cultuale dell’opera ma come aura cultuale della vita d’artista: «ora l’aura emana dalla vita stessa dell’artista, che si esprime nelle gesta artistiche che lo vedono protagonista», scrivevi (in 1). «Questo agire-bene ha come télos assoluto la smisurata libertà dell’artista moderno che egli getta in faccia al mondo. Questa libertà, che si esprime nel suo piacere per una prassi trasgressiva, può dargli la gloria».

Qui coglievi un punto importante del paradigma post-duchampiano: la continua forzatura dei limiti in nome di una libertà assoluta. Ma, come commentavo (in 2), questa prassi trasgressiva a mio avviso non si basa tanto sul piacere che dona, quanto sulla «ricerca ossessiva della singolarità, perché […] non è la libertà che dà la gloria nel mondo dell’arte, ma la costruzione della singolarità».

Un altro punto importante del paradigma emerge quando più avanti scrivevi (in 1): «non è più l’opera a dare valore all’artista, ma l’artista all’opera. E che cosa autorizza l’artista a porsi come tale e quindi a proporre come arte tutto ciò che fa, anche le proprie feci? La propria auctoritas che deriva dalla sua práxis, dalla sua vita d’artista»

Qui c’è il nucleo della tua tesi che condivido in pieno, e che in questi anni ho elaborato a modo mio. Quello su cui dissentivo – e continuo a dissentire – è la riduzione di questa auctoritas all’aura che, scrivevi, «si afferma come firma e logo e si risolve in molto aurum». Vista così, lauctoritas di Warhol non è altro che il potere sociale che egli per primo ha contribuito a costruire facendosi “mercante” della propria aura in quel mondo dell’arte che è ormai contaminato dalla comunicazione di massa e nel quale Andy Warhol finisce sullo stesso piano Lady Gaga o Justin Bieber.

Dal mio punto di vista, a questa auctoritas socio-economica va contrapposta un’auctoritas critico-ermeneutica, dalla quale discende un diverso modo di considerare l’aura della vita d’artista. Il punto cruciale del mio testo (2) è questo:

«produrre coscientemente la propria singolarità significa non solo crearsi un’immagine, ma anche, e soprattutto, plasmare la propria vita in modo che diventi fisiognomica dell’anima. Ogni azione, ogni idea, ogni cosa realizzata in una simile vita d’artista può avere allora il tocco di Mida che ha suggerito, con la sua ironia, Piero Manzoni. Ogni opera diventa sineddoche di quella metafora straordinariamente complessa che è la vita dell’artista. È come se in ogni opera si riverberasse la “presenza” concettuale della sua intera esperienza artistica, allo stesso modo in cui ogni singola parte di un ologramma conserva il contenuto informativo dell’intera immagine».

Ciò che tu chiama eupraxia, l’unicità della vita d’artista che si rispecchia nella sua aura, per me non è che il riverbero dell’aura concettuale su tutta l’ouvre e la vita dell’artista: una prassi poetica impregnata di significato.

Infine, un chiarimento sul saggio di Agamben: ho voluto inserirlo nel commento al tuo testo non per mettermi sulla scia, come scrivi tu, ma anzi per criticarlo recuperando però un’idea che mi sembrava affine al mio concetto di vita “plasmata” come opera (e non come piacere della libertà e aura massmediatica). Del saggio di Agamben (che ho cercato di esporre nel suo complesso, compreso il passaggio su Odo Casel che è però irrilevante per la mia argomentazione), mi aveva colpito sia l’affinità con la tua tesi centrale (di cui va riconosciuta la precedenza), sia un modo di intendere quella strana praxis che si trova nell’artista contemporaneo, molto diversa dalla tua: una praxis che diventa opera non è l’eupraxia come potere socioculturale (il tuo Warhol); è invece «una praxis-poiesis che pensa (theoria) e produce (segni, quali che siano)» (come scrivevo in 2). E anche le «prassi poetiche», cioè le vite “plasmate” come opere, sono significati incarnati.

1 Rimando al capitolo su Piero Manzoni nel mio Catastrofi d’arte. Storie di opere che hanno diviso il Novecento, Johan & Levi, 2019.

2 Nathalie Heinich, Il paradigma contemporaneo, Strutture di una rivoluzione scientifica, Johan & Levi, 2022.

3 Il testo fondamentale di Danto è La trasfigurazione del banale, Laterza, 2008. Importante anche La destituzione filosofica dell’arte, Aesthetica, 2008.

4 Danto, La trasfigurazione del banale, op. cit., p. 157.

5 Danto, La destituzione filosofica dell’arte, op. cit., pp. 77.

6 Un buon esempio di ricostruzione dell’Artworld di un’opera, senza alcun riferimento a Danto, è l’analisi che Baxandall fa del Kahnweiler di Picasso. Cfr. Michael Baxandall, Forme dell’intenzione, Einaudi, 2000.

7Danto, La trasfigurazione del banale, op. cit., pp. 70-80.

8 Cfr. ad esempio, Georgina Adams, The dark side of the boom, Johan & Levi, 2019.

9 Marco Meneguzzo, Il capitale ignorante. Ovvero come l’ignoranza sta cambiando l’arte, Johan & Levi, 2019.

10 Heinich, Il paradigma contemporaneo, op. cit., cap. 12.

11 Isabelle Graw, High Price. Art Between the Market and Celebrity Culture, Sternberg Pres, 2010

12 Marcel Duchamp, The Creative Act, Session on the Creative Act, Convention of the American Federation of Arts, Houston, Texas, April 1957:

L’antico spettacolo della mimesis contro il Kitsch della Pop Art?

La splendida cornice della Basilica palladiana di Vicenza ospita in questo periodo (fino al 7 maggio) una mostra che s’intitola Flow e si propone come un possibile dialogo tra arte contemporanea italiana e cinese.

Da almeno un decennio, in linea con l’andamento del Pil del gigante asiatico, che ha cominciato a impennarsi proprio a cavallo del millennio, l’arte cinese continua ad accrescere la sua presenza e i riconoscimenti nel mondo occidentale. È uno dei tanti effetti del “flusso” della globalizzazione, che ha portato alla ribalta del sistema mondiale dell’arte un numero crescente di artisti, alcuni arrivati ai vertici, con quotazioni e presenze prestigiose. Il più famoso è senz’altro Ai Weiwei, a cui solo alcuni mesi fa Palazzo Strozzi ha dedicato una grande retrospettiva.

La mostra vicentina, che è alla seconda edizione dopo l’esordio nel 2015, si presenta come un fenomeno “glocal”, in cui contatti personali e incontri casuali giocano un ruolo decisivo e possono creare effetti interessanti.

Dato che per accostarsi in modo non banale a un’opera contemporanea bisognerebbe conoscere l’artista, la sua produzione e il contesto artistico e culturale in cui si è sviluppata, mi limiterò all’opera su cui posso offrire alcune riflessioni non superficiali. Non prima di aver indicato una delle cose che più mi hanno colpito della mostra: la relazione introduttiva di Marcello Ghilardi, ricercatore dell’università di Padova che si occupa estetica e filosofia dell’Asia Orientale a Padova. Il suo testo contenuto nel catalogo, “Forme dell’incontro: la traduzione e il dialogo”, è molto stimolante e ho deciso di riservarne un commento approfondito in un prossimo post.

L’opera di cui voglio parlare è invece italiana ed è quella che, a mio avviso, crea il contrasto più spettacolare – e, paradossalmente, nasconde l’affinità più sottile – con l’aura di classicità che aleggia nell’immensa navata palladiana.

Sembra fatta con scatoloni malconci e strappati, alcuni sfasciati e distesi a terra, altri sovrapposti per costruire una specie di riparo, come fanno solitamente i barboni. Solo che invece dei barboni ci sono dei pappagalli, che hanno lasciato evidenti tracce di guano e residui di cibo. Gli scatoloni hanno un marchio colorato e molto famoso per chiunque conosca l’arte del Novecento: Brillo.

Le Brillo Box di Andy Warhol, esposte per la prima volta a New York nel 1964, sono una delle opere-simbolo della Pop Art e dell’arte contemporanea in genere. Il loro shock estetico fu il catalizzatore di una delle più importanti riflessioni filosofiche contemporanee sull’arte, quella che il filosofo Arthur Danto cominciò a elaborare dopo aver visitato quella storica mostra e che culminò vent’anni dopo in un libro importante, intitolato significativamente La trasfigurazione del banale.

L’opera, del duo italiano Bertozzi&Casoni, è un’evidente citazione parodistica e sarcastica, e si rivolge a un pubblico in grado di afferrare la metafora critica scagliata contro l’arte “contemporanea”: spazzatura in cui vivono imitatori senza originalità. Ma ha qualcosa di sorprendente da offrire anche a chi non conosce le Brillo Box di Warhol, né gli autori della parodia. Avvicinandosi ci si rende conto che quella non è un’installazione fatta di cartoni, anche se lo sembra fin nei minimi dettagli; non è vero guano quello che lorda gli scatoloni, né sono uccelli impagliati quelli che spuntano dai buchi… Tutto è fatto di ceramica!

Gli autori infatti sono famosi per il virtuosismo iperrealistico delle loro opere in maiolica policroma: veri e propri tromp-l’œil tridimensionali che suscitano stupore per la perfezione con cui riescono a riprodurre qualunque materiale, quasi sempre i più improbabili e i meno “estetici”.

La più classica delle idee di arte, quella mimetica, viene qui riportata al suo antico splendore, a quella mitica gara tra techne e natura nella quale la prova suprema è la trasparenza assoluta del medium, l’impossibilità di distinguere con gli occhi la rappresentazione dall’oggetto rappresentato (come il leggendario velo che Apelle dipinse sul canestro di frutta di Zeusi). Una restaurazione che è uno schiaffo a tutte le avanguardie storiche del Novecento, convinte di aver definitivamente archiviato l’idea di arte come tecnica e meraviglia della mimesis. L’eccellenza artigianale della mano e dell’occhio rivendica qui il suo status nei confronti dell’invenzione trasgressiva della mente, creando una meraviglia tutta sensuale che si pone esattamente agli antipodi del concettualismo dominante nell’arte contemporanea.

(Sull’attualità e l’interesse del tromp-l’œil c’è un bel libro di Omar Calabrese, semiologo famoso per le sue tesi sul Neobarocco, ben commentato in questa recensione di Anna Stefi).

Di contemporaneo, nei lavori di Bertozzi&Casoni, c’è invece la scelta dei soggetti: sono nature morte dal sapore surrealista, spesso “sparecchiature” che ricordano le tavole di Spoerri, con stoviglie sporche, avanzi, rifiuti, a volte animali improbabili. Sembrano versioni tridimensionali e postmoderne delle vanitas, le nature morte fiamminghe del Seicento famose per il loro magistrale realismo e la malinconia. Tra le vanitas e i rifiuti compaiono di tanto in tanto opere di artisti come Warhol, Arman e Piero Manzoni (le famigerate lattine).

Ma le Brillo Box sono quelle che Bertozzi&Casoni prendono più spesso di mira. Si potrebbe vedere una sottile ironia nella scelta del bersaglio, perché anche Warhol, con quest’opera, sembra voler tornare alla mimesis. In realtà, attraverso la scelta di un oggetto banale e la sua pedissequa riproduzione con materiali e modalità impersonali (legno compensato e stampa serigrafica), Warhol mirava ad annullare qualunque valenza espressiva e soggettiva, in violenta contrapposizione con l’espressionismo astratto che aveva dominato fino a qualche anno prima il mondo dell’arte. Anche se le Brillo Box sono costruite dall’artista, non sono rappresentazioni, ma mere presentazioni, analoghe ai readymade duchampiani. Se lo scolabottiglie o l’orinatoio rappresentano un radicale rifiuto dell’illusione retinica, della tecnica e dell’estetica (la bellezza, il gusto), le Brillo Box sono repliche di un oggetto del mondo del consumo, e rifiutano anch’esse l’aspirazione all’originalità e alla superiorità spirituale dell’arte. Alla forza del gesto di Duchamp, Warhol aggiunge una provocatoria fascinazione per l’immaginario popolare della cultura di massa.

È questo aspetto, assieme alla sapiente costruzione del suo brand d’artista, che ha fatto di Warhol il portabandiera di un’arte allo stesso tempo trasgressiva e di successo, Kitsch e d’avanguardia (alla faccia di Greenberg). E lo ha reso, per molti, il massimo responsabile dopo Duchamp delle degenerazioni dell’arte contemporanea.

Se accostato alla filosofia di Danto, il tromp-l’œil di Bertozzi&Casoni crea un corto circuito teoricamente affascinante, perché la ricerca di una definizione dell’arte condotta dal filosofo americano parte proprio da questo problema: cosa fa di un oggetto un’opera d’arte quando è del tutto indistinguibile da un oggetto comune, come ad esempio uno scatolone da supermercato?

Della risposta di Danto parlerò nel prossimo post. La risposta di Bertozzi&Casoni sembra invece questa: l’arte è un’abile finzione che riproduce la realtà offrendocene un nuovo significato e una nuova emozione. Una definizione classica, alla quale si aggiunge l’enfasi barocca del meraviglioso inganno dei sensi (come quello della galleria di palazzo Spada, con la prospettiva sapientemente deformata da Borromini, che incanta la spogliarellista de La grande bellezza).

C’è dunque un doppio o triplo rovesciamento: in Warhol l’oggetto banale viene trasfigurato in opera d’arte ripudiando la concezione tradizionale dell’arte; in Bertozzi&Casoni l’opera viene parodiata e riportata alla banalità, ma attraverso l’estetizzazione tradizionale del virtuosismo mimetico, che mette in luce la grande abilità tecnica dell’artista e il significato metaforico della citazione. Se accettiamo l’idea di diversi paradigmi dell’arte – classico, moderno e contemporaneo – il lavoro di Bertozzi&Casoni si potrebbe definire come un’appropriazione ironica del paradigma contemporaneo all’interno del paradigma classico.

Ecco dunque il paradossale effetto di dissonanza e consonanza col luogo: il Kitsch dissacrante e ironico tipico dell’arte contemporanea e la grande maestria nella rappresentazione tipica dell’arte classica che ha uno dei suoi apici proprio nel Rinascimento italiano.

Ora, come si propone la mostra, vorrei provare a mettere in dialogo quest’opera italiana con una cinese presente nella mostra. Nonostante l’identità di stile e medium, non sono le due vecchie scarpe usurate da lavoratore, accuratamente riprodotte ma ingrandite quattro-cinque volte, frutto del lavoro – guarda caso – di un’altra coppia di ceramisti, i Chao Brothers. Il progetto del duo cinese è lontanissimo dall’ironia del duo italiano: rievoca il pathos espressionista delle scarpe di Van Gogh, ma rivisitate con un intento fin troppo didascalico, che vuole trasformare quella metafora esistenziale dell’artista in identità e storia di un popolo, col rischio di scadere in un’epica monumentale dalla facile retorica.

La ricerca della meraviglia barocca di Bertozzi&Casoni, il loro gusto per lo spettacolo da tromp-l’œil e la loro concezione classica dell’arte rivisitata con un spirito postmoderno, trova invece un’interessante accostamento, secondo me, a un’opera molto diversa, quella Li Wei. È un fotografo che ha raggiunto la notorietà internazionale grazie alle sue foto-performance: costruisce situazioni impossibili e ironiche, ma perfettamente realistiche, in cui i suoi soggetti (spesso l’artista stesso) sembrano liberarsi dalla forza di gravità e interagire nei modi più improbabili con l’ambiente. Il trucco sta nelle gru e nei cavi invisibili che tengono sospesi i corpi e che vengono poi cancellati in postproduzione. L’opera esposta a Vicenza, Sposa dai piedi di loto, è molto meno sensazionalistica: è un video che mostra una ragazza in un rosso costume tradizionale da matrimonio, che si staglia in vari ambienti in un lenta danza levitante. Le acrobazie impossibili e “superomistiche” passano qui in secondo piano e di Li Wei punta a un raffinato contrasto tra il soggetto e i panorami cinesi e a una ricercatezza poetica dell’immagine. Che rimane tuttavia sospesa su un baratro più rischioso: quello del Kitsch e della sua retorica da cartolina.

È questo il dubbio che sollevano i pur affascinanti lavori di Bertozzi&Casoni e di Li Wei: sono espressioni di una ricerca estetica in contrapposizione col paradigma contemporaneo che domina il sistema dell’arte attuale o sono espressioni di un’arte che cerca lo spettacolo e strizza l’occhio al Kitsch postmoderno (e quindi intrinsecamente Pop)? O sono tutt’e due le cose?

(Flow. Arte contemporanea Italiana e Cinese in dialogo. A cura di Maria Yvonne Pugliese e Peng Feng. Basilica Palladiana di Vicenza, fino all’8 marzo)

Ferraris, le scatole di Warhol e la banalizzazione di Danto

 

Andy Warhol alla Stable Gallery di New York nel 1964. (Photo by Fred W. McDarrah/Getty Images)

In questi giorni mi è capitato sott’occhio un articolo di Maurizio Ferraris pubblicato sul Sole24Ore che racconta la “Grande bellezza delle Brillo Box”, una delle opere più famose di Andy Warhol, mettendo in ridicolo l’interpretazione che ne aveva dato Arthur Danto, uno dei più importanti filosofi dell’arte degli ultimi decenni, morto nel 2013.

È comprensibile che, in un commento leggero su un quotidiano, un filosofo metta da parte il rigore. Ma è sorprendente quanto sia stato ingeneroso Ferraris nei confronti del suo collega. Ho pensato fosse giusto rendere onore al merito dell’autore di un libro importante come La trasfigurazione del banale (Laterza, 2008. The Transifuguration of Commonplace. A Philosophy of Art, 1981), sul quale Ferraris ha operato una trasfigurazione in senso opposto, riducendolo a una banalità.

Danto non ha mai detto che le Brillo Box erano dei ready-made: sapeva bene che erano “ricostruzioni” fatte di legno e serigrafate con i colori e le scritte degli originali. La sua tesi principale nacque da una scoperta davvero sconvolgente, nel 1964: in una galleria d’arte c’erano delle opere che, a colpo d’occhio, sembravano del tutto indistinguibili da scatoloni di merci da supermercato. Le Brillo Box di Warhol gli suggerirono un esperimento mentale, che può essere riassunto in questa domanda: cosa fa di un oggetto un’opera d’arte, se quell’oggetto è del tutto uguale a un oggetto banale come una merce da supermercato? A partire da questa domanda costruì una complessa teoria dell’arte, che è diventata un riferimento fondamentale nel settore. 

Nella successiva elaborazione del suo pensiero, contrariamente a quanto sostiene Ferraris, Danto ha anche riconosciuto (in The abuse of Beauty, 2003) che le Brillo Box sono belle e che l’estetica è importante. Non solo, ha anche ammesso che la bellezza è un concetto che rientra legittimamente in una teoria dell’arte, anche se, a partire da Duchamp e dai suoi ready-made, non è più un concetto essenziale per definire l’arte. Anche nelle Brillo Box la bellezza conta, sia dal punto del grafico James Harvey che ideò il packaging, sia da quello di Warhol. Ma per l’opera d’arte firmata da Warhol il suo ruolo non è fondamentale: è una bellezza “esterna” all’opera, come dice Danto.

Infine, Danto ha anche scritto (in Andy Warhol, Einaudi, 2010) che, con opere come le Brillo Box e le Campbell Soup, “Andy celebrava la vita americana di tutti i giorni” e “pensava che questa fosse la grandezza dell’America”. Dunque, la stessa idea che Ferraris presenta come una confutazione dell’interpretazione di Danto.

Ad essere confutata è invece proprio la conclusione di Ferraris: la “grande bellezza” non è delle scatole, quanto del gesto di Warhol, che è precisamente una “trasfigurazione del banale”: un gesto artistico-filosofico che Danto ha motivato con argomentazioni che continuano ad essere profonde e feconde.

Après Duchamp. I mille volti del ready-made

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Può suonare strano, ma con i ready-made di Duchamp, in un certo senso, l’arte del Novecento ha cominciato ad essere improvvisamente “contemporanea”. Il suo orinatoio è stato uno degli oggetti più influenti dell’arte che è venuta dopo ed è arrivata fino a noi, soprattutto a partire dalla metà del secolo scorso.

Questo però non significa affatto che tutta l’arte del Novecento sia riconducibile ai ready-made e all’estetica della presentazione (di cui abbiamo parlato nella prima parte); né che lo sia tutta l’arte a noi contemporanea.

Piuttosto, è come se, “trasfigurando” in arte i suoi oggetti già-fatti, Duchamp avesse aperto un nuovo corso al grande fiume dell’arte, un corso che ha cominciato a scorrere accanto a quello che Picasso e Matisse stavano forzando, in quegli stessi anni, verso nuove direzioni.

Qui seguiremo pertanto solo il corso segnato dai ready-made di Duchamp, nel quale (come abbiamo visto) il lavoro dell’artista si sposta dalla mano alla testa e acquisisce una dimensione più concettuale e filosofica, mettendo in questione, direttamente o indirettamente, il senso stesso dell’arte e del fare arte.

Le opere che ho selezionato e che propongo in ordine cronologico (ma con eccezioni utili per alcuni accostamenti interessanti) sono esempi che dimostrano come l’idea del ready-made possa essere incarnata in opere visivamente diversissime, nelle quali la techne dell’artista, pur non basandosi più sulla maestria della mano, non smette mai di dimostrare qualità e capacità inventiva.

Tra questi esempi sono pochi i veri ready-made, cioè oggetti su cui l’artista ha lavorato soltanto creando un nuovo framing (titolo, “cornice” discorsiva ed espositiva, contesto). Del resto lo stesso Duchamp aveva iniziato con la ruota, che è un assisted ready-made, come definì in seguiti alcuni dei suoi oggetti non completamente già-fatti. Altri, come la famosa Gioconda coi baffi, sono stati definiti rectified ready-made.

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Nella Gioconda ritoccata (e presa in giro con un gioco di parole: letto in francese il misterioso acronimo suona come “lei ha caldo al culo”) c’è la carica dissacratoria di Duchamp. Nell’altro esempio di ready-made “aiutato” ritroviamo invece il suo gusto per l’accostamento casuale e l’indifferenza al carattere estetico degli oggetti scelti. In più c’è l’enigma dell’oggetto nascosto, di cui si sente il rumore: qui, in nuce, c’è l’idea di presentare nascondendo, che riemergerà in modi più eclatanti tra alcuni eredi di Duchamp, e che trova subito un’eco nella poetica surrealista.

Man Ray

Sul primo numero della rivista La Révolution surréaliste (1924) si definisce surrealista “qualunque scoperta che cambi la natura o la destinazione di un oggetto o un fenomeno”. Nella prefazione della rivista era inserita l’immagine di un “assisted ready-made” di Man Ray. Il titolo nasconde un riferimento al verso di Lautreamont (il cui vero nome era Isidore Ducasse), che i surrealisti assunsero come loro motto estetico: “bello come l’incontro casuale di una macchina da cucire e un ombrello su un tavolo d’anatomista”. Nascosta sotto la coperta legata c’era infatti una macchina da cucire.

L’oggetto surrealista (spesso chiamato objet trouvé) deriva dal ready-made duchampiano, ma con una differenza fondamentale: mentre coi suoi ready-made Duchamp puntava a una “indifferenza visiva”, qui è evidente una carica emotiva che fa leva su meccanismi inconsci.

Openheim

Ancora più evidenti le sollecitazioni inconsce e le allusioni erotiche degli oggetti surrealisti inventati da Meret Oppenheim (qui sopra ritratta in una foto di Man Ray): la sua famosa tazza rivestita di pelliccia e la governante in versione feticista. Nonostante la distanza dall’indifferenza duchampiana, anche questi ready-made aiutati dimostrano che la techne dell’artista – e il suo stile – è nell’idea.

Cage

Con un salto brutale passiamo a un’opera che sembra del tutto incongrua, non solo perché è di un musicista, ma soprattutto perché l’oggetto (sonoro o meno) sembra scomparso. John Cage è uno dei più noti e controversi compositori contemporanei; è stato amico di Duchamp (è con lui che sta giocando a scacchi nella foto) e anche appassionato del pensiero zen. Questo suo pezzo è fatto solo di pause, cioè di silenzio; in realtà vuole “incorniciare” i rumori casuali che entrano in una sala da concerto durante i 4′ e 33” in cui l’esecutore non suona. Il gesto di Cage è proprio in quel framing che costituisce l’essenza del ready-made: portando l’attenzione sull’ambiente sonoro in cui avviene la performance – e che non è mai puro silenzio -, Cage incornicia un frammento di tempo, un pezzo di vita.

Rauschenberg

All’idea di Cage diede una traduzione visiva Robert Rauschenberg (che in quegli anni frequentava i seminari di Cage al Black Mountain College). Secondo le sue intenzioni  White Paintings (a sinistra nella foto) erano “quadri bianchi che captano ombre”. Dunque, ancora una volta un’operazione di framing, di “incorniciamento” di frammenti di realtà: luci, ombe e riflessi casuali dell’ambiente.

Un senso molto diverso ha il disegno “quasi bianco” che propongo a fianco: nel solco della provocazione duchampiana, Rauschenberg si è fatto dare un disegno da de Kooning, uno degli esponenti dell’espressionismo astratto allora dominante, e… l’ha cancellato! Il suo gesto elimina la traccia della mano, l’io e l’inconscio che il pittore voleva esprimere, e riporta il foglio al suo essere oggetto, a un silenzio zen in cui rimangono però gli echi di un’aggressione critica.

Warhol

Rimaniamo in America, ma con un salto di 15 anni per arrivare subito all’artista che ha portato alle sue logiche conseguenze – e accortamente sfruttato – il sistema dell’arte denunciato dall’orinatoio di Duchamp. Le Brillo Box non sono dei very ready-made, perché Warhol ha effettivamente riprodotto con legno e colori delle copie di scatole di pagliette per pulire le pentole. Ma quel che conta è che in questo modo ha reso le merci opere d’arte e le opere d’arti merci. L’operazione di framing qui è totale e simmetrica: Warhol non ha semplicemente posto una merce in una galleria d’arte, ma ha anche fatto entrare le opere d’arte nel grande supermercato del capitalismo, trasformando il mondo in un’enorme raccolta di immagini equivalenti. Cos’è che fa di una Brillo Box di Warhol un’opera d’arte? Su questa domanda Arthur Danto ha costruito una delle più discusse filosofie dell’arte del Novecento.

Koons

Koons è un erede di Warhol – a mio avviso molto sopravvalutato -, che non ha fatto altro che rendere più didascalico e spettacolare il cortocircuito oggetto-merce-opera d’arte, iniziato con Duchamp e consacrato da Warhol. Era un agente di borsa e si è trasformato in un artista sfruttando a pieno il sistema dei Mercanti di aura, costruendo il poprio brand ed elevando il Kitsch a Glamour. Gli aspirapolvere Hoover sono very ready-made, oggetti privati della loro funzione e “incorniciati” da teche di vetro dentro una galleria.

Klein

Qui la mano c’è… ma è una mano di colore! Yves Klein, in realtà si vantava di non doversi sporcare coi pennelli e usava il rullo da imbianchino per i suoi Monochromes (oppure le modelle nude per le sue Anthropometries). Il suo misticismo del colore e della sensibilità spirituale invisibile lo colloca agli antipodi da Duchamp, ma lo spunto biografico da cui nacquero i suoi famosi monocromi blu dimostra, in fondo, che all’origine c’è un ready-made dellimmaginazione: tutto iniziò quando, disteso sulla spiaggia di Nizza, il giovane Klein ebbe l’idea di ritagliare e firmare un pezzo di cielo.

manzoni

Dal cielo mistico di Klein, alla merda di Manzoni: è proprio vero, come dice il titolo di un bel libro di Angela Vettese, che l’arte contemponea Si fa con tutto… I barattolini venduti al prezzo corrispondente in oro, sono la bomba atomica comunicativa che ha segnato Manzoni come l’orinatoio ha segnato Duchamp. Ma la facile analogia scatologica tra questo barattolino, che potrebbe sembrare un ready-made assistito, e la Fountain è fuorviante (per un’analisi più approfondita dell’opera di Manzoni rimando a miei post precedenti, in particolare quello che si può trovare cliccando qui). In Manzoni non c’è solo la critica feroce al sistema dell’arte, c’è anche il corpo dell’artista come reliquia che demistifica il culto dell’interiorità, dello stile, dell’artista “creatore”. O meglio c’è l’idea del corpo, perché la sua produzione fisiologica in realtà è nascosta, solo dichiarata. Inoltre, stabilendo l’equazione arte=merda=oro, Manzoni mette in un fulmineo cortocircuito metaforico la parte più nobile dell’anima e quella più vile del corpo, l’idea più alta e la materia più bassa, il valore spirituale e il valore di scambio, la mano di Dio e lo sterco del diavolo. (Fine della seconda parte. CONTINUA)

 

Che aura tirava alla Biennale? (1)

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A pochi giorni dalla chiusura della Biennale 2013 sono andato a fare un test al Palazzo Enciclopedico di Massimiliano Gioni. Volevo vedere che “aura” tirava nel mondo dell’arte assemblato dal giovane curatore.

L’aria che tirava a Venezia era quella limpida, frizzante e luminosa di una splendida giornata di novembre: con quella luce e le grandi nuvole all’orizzonte sembrava di essere in un quadro di Canaletto.

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Ma l’aura che mi interessava era naturalmente quella resa famosa da Walter Benjamin, anche se il libro “galeotto” che mi ha spinto tra le braccia della Biennale non è L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.

11294È un libro molto più recente scritto da Alessandro Dal Lago e Serena Giordano: Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea (Il Mulino, 2006), che secondo me può essere letto come un presupposto teorico della Biennale appena conclusa (o un suo nascosto idolo polemico: vedremo). Credo che le coincidenze e le risonanze tra libro e mostra siano tali da giustificare in pieno questa specie di recensione anacronistica (dell’uno e dell’altra).

La prima coincidenza è che il libro è nato proprio dall’esperienza di una Biennale, quella del 2003 curata da Francesco Bonami, mentore – guarda caso – dell’attuale curatore. La visita a quella Biennale suggerì agli autori che “l’arte – un’esperienza che dovrebbe rivolgersi in primo luogo al nostro sguardo – esiste perché, alla fine, è incorniciata intellettualmente”. E questa cornice di discorsi, senza la quale l’arte contemporanea non esisterebbe, è precisamente ciò di cui è fatta l’aura. Critici, curatori, galleristi, pubblicazioni, istituzioni, artisti ed esperti vari, con i loro discorsi più o meno influenti, contribuiscono a delimitare i confini dell’arte, a costruire le cornici che separano ciò che è arte da ciò che non lo è.

Dunque: cosa ha messo Gioni dentro la cornice della sua Biennale e cosa ha lasciato fuori? È vero che l’arte contemporanea è una creazione dei “mercanti d’aura”? È possibile fare a meno dell’aura? Cosa succede se si esce dalla cornice d’aura dei mercanti?

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Morte e trasfigurazione dell’aura

Per provare a rispondere a queste domande bisogna ricominciare da Walter Benjamin. Nel famoso testo scritto negli anni Trenta il grande pensatore tedesco sosteneva innanzitutto che l’aura è il carattere di autenticità e unicità delle opere d’arte tradizionali, un carattere che discende dal loro antico valore cultuale (il loro “carisma”, suggeriscono Dal Lago e Giordano). Sosteneva inoltre che l’aura dell’arte stava svanendo per effetto delle tecniche di riproduzione (fotografia e cinema) e del conseguente allargamento della fruizione, oltre che del carattere dissacrante di avanguardie come il dadaismo. Ma Benjamin non vedeva nella sparizione dell’aura un maleficio della tecnica e della massificazione; lo vedeva invece come un benefico processo di democratizzazione estetica.

Benjamin, come dice Baricco, era un genio che “fotografava il divenire” e per questo le sue foto venivano un po’ mosse. Anche la sua foto dell’aura non era perfetta: la democratizzazione c’è stata, ma l’aura non è affatto svanita. Anzi.

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Proprio il gesto dissacrante di Marcel Duchamp lo spiega in modo esemplare: prendere un orinatoio, firmarlo e farlo esporre in un mostra d’arte non è affatto una distruzione del carisma dell’arte; è invece una dimostrazione del fatto che ciò che trasforma quell’orinatoio in un’opera d’arte è la firma, lo scandalo, la fama che ne deriva, le interpretazioni, la sua presenza dentro quella o altre mostre; è cioè la cornice di discorsi e ruoli o relazioni sociali che Duchamp e il mondo dell’arte hanno costruito attorno all’orinatoio. In una parola: la sua aura.

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Dopo Duchamp, che è sempre rimasto un provocatore anarchico, Andy Warhol ha ripreso il suo gesto e ne ha fatto un’estetica dominante. Duchamp ha gridato “il re è nudo”; Warhol ne ha fatto uno slogan vincente, dimostrando che questo stesso grido non è che la merce più preziosa. Come un re Mida reversibile, Warhol ha trasformato le merci in opere d’arte e le opere d’arte in merci ideali, il cui valore finanziario (il marxiano valore di scambio) è direttamente proporzionale alla loro aura. Warhol dichiara, con spudorata coerenza, che l’arte contemporanea è la quintessenza del business. Se il valore della merce dipende in gran parte dalla forza della firma, cioè dalla griffe (o brand) e dal discorso che la pubblicità crea attorno alla griffe e agli oggetti griffati, allora l’opera d’arte diventa una iper-merce e il processo di auratizzazione diventa il sommo ideale del marketing nella nostra “fiction economy”, come l’ha definita Fulvio Carmagnola (Il consumo delle immagini. Estetica e beni simbolici nella fiction economy, Bruno Mondandori, 2006).

Insomma, nel tragitto da Benjamin a Warhol si realizza la morte e trasfigurazione dell’aura, e “l’arte si identifica col capitalismo, di cui diviene l’espressione culturale più coerente”, sintetizzano Dal Lago e Giordano. Warhol è andato fino in fondo, con la lucidità di un’artista che guarda in faccia la medusa, e ha mostrato che “il mondo dell’arte è propriamente una macchina sociale ed economica, non una sfera indipendente di produttori di senso e bellezza”.

Questa concezione dell’aura e dell’arte contemporanea è probabilmente una semplificazione a scopo di teoria, perché l’arte dei nostri tempi non deriva soltanto dall’orinatoio di Duchamp o dalla zuppa di Warhol (lo mostra bene Angela Vettese nel suo Si fa con tutto. Il linguaggio dell’arte contemporanea, Laterza, 2010).

Tuttavia Mercanti d’aura lancia una sfida interessante al curatore di una mostra d’importanza mondiale come la Biennale di Venezia. E mi sembra che Massimiliano Gioni abbia raccolto la sfida con grande impegno.

Se “l’arte contemporanea è anche una splendida metafora del nostro modo di vivere e della nostra cultura”, come dicono Dal Lago e Giordano, cosa racconta di noi il Palazzo Enciclopedico di Gioni? Anche per la sua Biennale possiamo dire “l’arte d’oggi è una sfera culturale che esprime, più di ogni altra, la natura mercantile del nostro mondo”?

Lo vedremo nei prossimi post.