“Guardami, se ci riesci!”


Adolph Menzel, Das Balkonzimmer (1845)

Il dipinto mostra l’angolo di una stanza con una porta finestra aperta, da cui entra la luce calda del sole e una brezza che gonfia appena le tende. La stanza, in quel punto, è piuttosto spoglia. I pochi elementi d’arredamento, che suggeriscono un ambiente borghese ottocentesco, sono quasi tutti relegati nella parte più a destra del dipinto.

Al centro del quadro, dove converge la prospettiva e il nostro sguardo, c’è soltanto quella porta aperta, con le due ante parzialmente nascoste dalle tende svolazzanti: una soglia che illumina l’interno senza mostrare l’esterno. Del mondo al di là, il pittore ha dipinto soltanto gli effetti atmosferici: il vento che muove le tende e la luce che si riflette sul pavimento e sugli oggetti, e rischiara l’ambiente.

Anche l’interno, però, ha qualcosa di invisibile: sembra troppo vuoto, anche se non lo è. Sembra che manchi il soggetto del quadro; a meno che il soggetto non sia proprio quella porta aperta, resa viva dal sole e dal movimento delle tende. Eppure non si può fare a meno di sentire una mancanza. È come se qualcosa – una persona, un animale, un oggetto in posizione preminente – fosse stato sottratto alla scena.

Tra gli oggetti ci sono due sedie vuote, in posizione insolita: quella più in vista, accanto alla finestra, potrebbe esser stata messa lì per evitare che l’anta si apra troppo; o forse c’era seduto qualcuno che guardava all’esterno. E le ante, spalancate senza scostare le tende, forse si sono aperte improvvisamente, per un colpo di vento; o forse quel qualcuno è uscito di fretta sul balcone senza prima tirarle.

In ogni caso, l’atmosfera ha qualcosa di sospeso, provvisorio. Il pittore è riuscito a dipingere in modo realistico questa sospensione. È un realismo che ha qualcosa di paradossale e di magico.

Pur non avendo la precisione di dettaglio di una foto (precisione che si mostrerebbe in modo omogeneo su tutta l’immagine), l’effetto di realtà ottenuto con l’osservazione e la cura delle pennellate di colore è sorprendente (ricordiamo che il dipinto è piuttosto piccolo: 58 x 47).

Non si tratta tanto di finezza del disegno (nei grandi pittori fiamminghi ci sono dettagli minuscoli che hanno una finezza molto superiore), quanto di resa degli effetti visivi della luce. Guardate i i riflessi sul bastone d’ottone a cui è appesa la tenda; o i tocchi di luce, efficacissimi, sul legno lucido delle sedie e della specchiera; guardate le nuance di luce ed ombre sul pavimento, con quelle pennellate che sembrano cera tirata sul parquet; guardate le trasparenze della tenda. Qui c’è l’occhio di un osservatore accanito della realtà con la sensibilità pittorica di un impressionista ante litteram (il dipinto è del 1845, quasi trent’anni prima degli impressionisti). Ma soprattutto c’è un pittore di atmosfere, capace di far sentire la presenza fisica del suo sguardo, e del nostro, nell’ambiente dipinto.

In questo quadro l’atmosfera non è dipinta, come faranno gli impressionisti, rendendo “atmosferica” l’immagine, rendendola gassosa e sfumata come se la guardassimo con gli occhi socchiusi e cercassimo di afferrare l’effetto di luci e ombre colorate sospeso nei nostri occhi. Al contrario, è ottenuta lasciando il mondo al suo posto ed evidenziando i punti salienti in cui la luce riverbera e scolpisce gli oggetti facendoli quasi vibrare nello spazio che circonda l’osservatore. La luce avvolge ogni angolo di questa stanza proprio come avvolge ogni angolo della stanza in cui sto scrivendo in questo momento, con le mille piccole sfumature di colore e di chiaroscuro che sento quasi vibrare sulle pareti e sugli oggetti attorno a me.

Ma ad essere dipinta non è solo la luce. Si sente anche il caldo e la brezza della giornata luminosa. Si sente la malinconia di un luogo chiuso e abbandonato, in una giornata così bella. Si sente una sottile inquietudine per qualcosa che non riusciamo a identificare.

Continuando a guardare si scopre che parte di quell’inquietudine è dovuta a una ambiguità sfuggente anche se in piena vista. Quell’area più chiara della parete di fondo è un tentativo di tinteggiatura mal riuscita o una parte non finita del dipinto? (L’ambiguità, tra l’altro, conferma l’abilità del pittore, capace di stendere le pennellate sulla tela come se fossero passate di pennellessa su un muro o di cera sul pavimento).

La firma e la data sembrano escludere quest’ultima ipotesi, senza la quale, però, due particolari rimangono misteriosi. Sono la sagoma grigia solo abbozzata sopra il tappeto e ciò che si vede riflesso nello specchio e che dovrebbe essere visibile anche sulla parete vuota: il quadro con la cornice dorata e il divano rivestito con un tessuto a righe. È come se, sulla parete, il quadro e il divano avessero lasciato soltanto l’ombra, mentre la loro immagine è rimasta nello specchio, inquietante presenza di un’assenza.

Qualunque sia l’ipotesi, tutto ciò non fa che rafforzare la sensazione di sospensione e malinconia che aleggia sul dipinto, in contrasto con la luce calda e calma che lo inonda. La sensazione di un tempo sospeso e provvisorio, soffuso di mestizia, l’ambigua miscela di assenze e presenze, quella soglia al centro, aperta su un esterno che tuttavia imprigiona la vista nell’interno: tutto ciò mi fa pensare che qualcosa sia stato reso ineluttabile dal tempo o che stia per esserlo. Uno sfratto? Una morte? Forse un suicidio? Forse la persona che è appena uscita dal balcone si è gettata di sotto? O ha dovuto abbandonare la stanza dopo aver visto qualcosa dal balcone? Forse i mobili rimasti dentro lo specchio sono la memoria che contrasta col vuoto lasciato da un pignoramento? O forse sono il ricordo di una vita passata, quando in quella stanza abitavano persone care che non ci sono più?

Secondo il filosofo Alva Noë, le opere d’arte ci lanciano una sfida: ci sfidano a guardarle. Ho accettato la sfida con quest’opera di cui parla in particolare nel libro che ho recensito in questo pezzo su Doppiozero.

Vedere richiede un “occhio filosofico”, sostiene Noë, perché guardare con attenzione senza dar per scontato quello che vediamo, senza lasciarsi guidare dai tanti piccoli automatismi di cui sono fatte le nostre interazioni col mondo, è un atto «attivo e riflessivo». È un atto complesso, una specie di meta-sguardo col quale mettiamo in crisi le nostre quotidiane azioni visive. E in questo senso diventa un atto di pensiero, come quello del filosofo, e un atto creativo, come quello dell’artista in questo quadro.

Non rispecchiamo passivamente il mondo. Paradossalmente, con la sua affascinante ambiguità, non lo fa nemmeno lo specchio dipinto da Menzel.

Adolph Menzel (German, Breslau 1815–1905 Berlin) The Choirstalls in the Mainz Cathedral, 1869 Central European, Watercolor and gouache (with gum arabic). Framing line in graphite.; sheet: 8 7/8 x 11 3/8 in. (22.6 x 28.9 cm) The Metropolitan Museum of Art, New York, Purchase, 2006 Benefit Fund, 2007 (2007.169) http://www.metmuseum.org/Collections/search-the-collections/375840

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