“Guardami, se ci riesci!”


Adolph Menzel, Das Balkonzimmer (1845)

Il dipinto mostra l’angolo di una stanza con una porta finestra aperta, da cui entra la luce calda del sole e una brezza che gonfia appena le tende. La stanza, in quel punto, è piuttosto spoglia. I pochi elementi d’arredamento, che suggeriscono un ambiente borghese ottocentesco, sono quasi tutti relegati nella parte più a destra del dipinto.

Al centro del quadro, dove converge la prospettiva e il nostro sguardo, c’è soltanto quella porta aperta, con le due ante parzialmente nascoste dalle tende svolazzanti: una soglia che illumina l’interno senza mostrare l’esterno. Del mondo al di là, il pittore ha dipinto soltanto gli effetti atmosferici: il vento che muove le tende e la luce che si riflette sul pavimento e sugli oggetti, e rischiara l’ambiente.

Anche l’interno, però, ha qualcosa di invisibile: sembra troppo vuoto, anche se non lo è. Sembra che manchi il soggetto del quadro; a meno che il soggetto non sia proprio quella porta aperta, resa viva dal sole e dal movimento delle tende. Eppure non si può fare a meno di sentire una mancanza. È come se qualcosa – una persona, un animale, un oggetto in posizione preminente – fosse stato sottratto alla scena.

Tra gli oggetti ci sono due sedie vuote, in posizione insolita: quella più in vista, accanto alla finestra, potrebbe esser stata messa lì per evitare che l’anta si apra troppo; o forse c’era seduto qualcuno che guardava all’esterno. E le ante, spalancate senza scostare le tende, forse si sono aperte improvvisamente, per un colpo di vento; o forse quel qualcuno è uscito di fretta sul balcone senza prima tirarle.

In ogni caso, l’atmosfera ha qualcosa di sospeso, provvisorio. Il pittore è riuscito a dipingere in modo realistico questa sospensione. È un realismo che ha qualcosa di paradossale e di magico.

Pur non avendo la precisione di dettaglio di una foto (precisione che si mostrerebbe in modo omogeneo su tutta l’immagine), l’effetto di realtà ottenuto con l’osservazione e la cura delle pennellate di colore è sorprendente (ricordiamo che il dipinto è piuttosto piccolo: 58 x 47).

Non si tratta tanto di finezza del disegno (nei grandi pittori fiamminghi ci sono dettagli minuscoli che hanno una finezza molto superiore), quanto di resa degli effetti visivi della luce. Guardate i i riflessi sul bastone d’ottone a cui è appesa la tenda; o i tocchi di luce, efficacissimi, sul legno lucido delle sedie e della specchiera; guardate le nuance di luce ed ombre sul pavimento, con quelle pennellate che sembrano cera tirata sul parquet; guardate le trasparenze della tenda. Qui c’è l’occhio di un osservatore accanito della realtà con la sensibilità pittorica di un impressionista ante litteram (il dipinto è del 1845, quasi trent’anni prima degli impressionisti). Ma soprattutto c’è un pittore di atmosfere, capace di far sentire la presenza fisica del suo sguardo, e del nostro, nell’ambiente dipinto.

In questo quadro l’atmosfera non è dipinta, come faranno gli impressionisti, rendendo “atmosferica” l’immagine, rendendola gassosa e sfumata come se la guardassimo con gli occhi socchiusi e cercassimo di afferrare l’effetto di luci e ombre colorate sospeso nei nostri occhi. Al contrario, è ottenuta lasciando il mondo al suo posto ed evidenziando i punti salienti in cui la luce riverbera e scolpisce gli oggetti facendoli quasi vibrare nello spazio che circonda l’osservatore. La luce avvolge ogni angolo di questa stanza proprio come avvolge ogni angolo della stanza in cui sto scrivendo in questo momento, con le mille piccole sfumature di colore e di chiaroscuro che sento quasi vibrare sulle pareti e sugli oggetti attorno a me.

Ma ad essere dipinta non è solo la luce. Si sente anche il caldo e la brezza della giornata luminosa. Si sente la malinconia di un luogo chiuso e abbandonato, in una giornata così bella. Si sente una sottile inquietudine per qualcosa che non riusciamo a identificare.

Continuando a guardare si scopre che parte di quell’inquietudine è dovuta a una ambiguità sfuggente anche se in piena vista. Quell’area più chiara della parete di fondo è un tentativo di tinteggiatura mal riuscita o una parte non finita del dipinto? (L’ambiguità, tra l’altro, conferma l’abilità del pittore, capace di stendere le pennellate sulla tela come se fossero passate di pennellessa su un muro o di cera sul pavimento).

La firma e la data sembrano escludere quest’ultima ipotesi, senza la quale, però, due particolari rimangono misteriosi. Sono la sagoma grigia solo abbozzata sopra il tappeto e ciò che si vede riflesso nello specchio e che dovrebbe essere visibile anche sulla parete vuota: il quadro con la cornice dorata e il divano rivestito con un tessuto a righe. È come se, sulla parete, il quadro e il divano avessero lasciato soltanto l’ombra, mentre la loro immagine è rimasta nello specchio, inquietante presenza di un’assenza.

Qualunque sia l’ipotesi, tutto ciò non fa che rafforzare la sensazione di sospensione e malinconia che aleggia sul dipinto, in contrasto con la luce calda e calma che lo inonda. La sensazione di un tempo sospeso e provvisorio, soffuso di mestizia, l’ambigua miscela di assenze e presenze, quella soglia al centro, aperta su un esterno che tuttavia imprigiona la vista nell’interno: tutto ciò mi fa pensare che qualcosa sia stato reso ineluttabile dal tempo o che stia per esserlo. Uno sfratto? Una morte? Forse un suicidio? Forse la persona che è appena uscita dal balcone si è gettata di sotto? O ha dovuto abbandonare la stanza dopo aver visto qualcosa dal balcone? Forse i mobili rimasti dentro lo specchio sono la memoria che contrasta col vuoto lasciato da un pignoramento? O forse sono il ricordo di una vita passata, quando in quella stanza abitavano persone care che non ci sono più?

Secondo il filosofo Alva Noë, le opere d’arte ci lanciano una sfida: ci sfidano a guardarle. Ho accettato la sfida con quest’opera di cui parla in particolare nel libro che ho recensito in questo pezzo su Doppiozero.

Vedere richiede un “occhio filosofico”, sostiene Noë, perché guardare con attenzione senza dar per scontato quello che vediamo, senza lasciarsi guidare dai tanti piccoli automatismi di cui sono fatte le nostre interazioni col mondo, è un atto «attivo e riflessivo». È un atto complesso, una specie di meta-sguardo col quale mettiamo in crisi le nostre quotidiane azioni visive. E in questo senso diventa un atto di pensiero, come quello del filosofo, e un atto creativo, come quello dell’artista in questo quadro.

Non rispecchiamo passivamente il mondo. Paradossalmente, con la sua affascinante ambiguità, non lo fa nemmeno lo specchio dipinto da Menzel.

Adolph Menzel (German, Breslau 1815–1905 Berlin) The Choirstalls in the Mainz Cathedral, 1869 Central European, Watercolor and gouache (with gum arabic). Framing line in graphite.; sheet: 8 7/8 x 11 3/8 in. (22.6 x 28.9 cm) The Metropolitan Museum of Art, New York, Purchase, 2006 Benefit Fund, 2007 (2007.169) http://www.metmuseum.org/Collections/search-the-collections/375840

Per una critica ermeneutica ed erotica

Hans Bellmer, La Toupie, 1937-52

Sono riconoscente a Federico Ferrari per aver accettato il dialogo sulle questioni sollevate nella mia recensione al suo libro. La sua risposta ha riaperto temi e problemi su cui rifletto da tempo e mi offre altra materia buona da pensare. Vorrei però affrontare subito alcuni punti, per chiarire possibili equivoci.

L’antinomia critica è una risposta acuta, non solo elegantemente in linea con la testata del sito su cui è pubblicata, ma anche in sintonia col cuore stesso della questione estetica, che nasce proprio all’insegna di una famosa antinomia, quella kantiana del gusto (che però Kant, a modo suo, risolveva).

Per uscire da una contraddizione si possono prendere in linea di massima due vie: si può dimostrare che una delle due tesi contrapposte (o entrambe) va in realtà riconcettualizzata in modo tale da dissolvere la contraddizione; oppure si può accettarla sostenendo che in realtà è un’antinomia irrisolvibile. Ferrari ha scelto la seconda: tra visione e critica c’è un’antinomia inevitabile, anzi doverosa, visto che conclude il suo pezzo suggerendo, con tono prescrittivo, che non si debba andare oltre questa «oscillazione antinomica».

Io penso invece che questa antinomia critica, con la sua affascinante cogenza, derivi da un certo modo di intendere il linguaggio in generale e il suo rapporto con la percezione. Nel suo testo Ferrari punta soprattutto a ribadire la differenza tra il suo modo di intendere la critica e il modo in cui la intende chi, come me, adotta una posizione “ermeneutica”. E la sua argomentazione è una descrizione metaforica del sapere e del linguaggio che la critica dovrebbe usare per parlare dell’opera in modo da non impedirne la visione.

Prima di affrontare questo tema, vorrei però precisare un paio di punti in cui, nonostante le apparenze, mi pare che le nostre posizioni siano molto vicine, se non coincidenti. Condivido innanzitutto il fastidio per l’eccesso di comunicazione, per quell’ipertrofia di discorsi che circondano l’arte contemporanea e che troppo spesso hanno solo una funzione di packaging più o meno implicita. Condivido anche l’idea che «il sapere dell’opera» sia esemplare, perché è proprio questo che intendo con paradigmatico. Il senso di paradigma a cui alludevo (e che non ho approfondito, inducendo probabilmente all’equivoco) non è tanto quello che Kuhn applica alle rivoluzioni scientifiche nel suo testo fondamentale (anche se nel Poscritto ci si avvicina), né quello che Heinich ha mutuato da Kuhn. Parlo proprio dell’esempio di cui non è possibile dare una legge (Kant): il sapere dell’opera è paradigmatico (o esemplare) perché è analogico e quindi non si dà come legge, né come modello esplicito o esplicitabile. Quando la critica “visionaria-antinomica” di Ferrari sceglie un’opera o una costellazione di opere fa precisamente questo: indica l’opera come esempio o paradigma di altre opere, cioè propone un’ipotesi di interpretazione basata su analogie. Il sapere paradigmatico non è una sussunzione sotto qualche regola, nè la dimostrazione della coincidenza con un modello precostituito.

Tornando al tema principale, dal mio punto di vista quella che Ferrari vede come un’antinomia è la naturale tensione insita nel rapporto assai complesso e controverso che esiste tra percezione e linguaggio. La differenza tra i nostri punti di vista dipende in primo luogo dal modo in cui intendiamo questo rapporto, e in particolare dal modo assai diverso in cui intendiamo i concetti di interpretazione e di significato.

Per me il significato non è il lemma del dizionario: è il risultato di un’organizzazione categoriale del mondo basata su un’ipotesi interpretativa. Ne risulta che linguaggio e percezione sono inestricabilmente intrecciati. Quando guardiamo le cose vediamo anche significati, perché la percezione interpreta il mondo facendo ipotesi semantiche; e perché il significato, inteso in questo modo, ha anche una dimensione percettiva. Persino quando una figura, per quanto indefinita, si stacca da uno sfondo attirando la nostra attenzione, si mettono in azione ipotesi interpretative, meccanismi semantici elementari che si basano essenzialmente su analogie.

Quanto all’interpretazione di un’opera d’arte, per me non è l’applicazione di un metodo valido a priori, la soluzione di un enigma o la scoperta di un codice nascosto che renda leggibile un testo. L’interpretazione, anche la più profonda, non esaurisce mai l’opera d’arte. Anzi, si può dire che nemmeno tutte le migliori interpretazioni messe assieme arriveranno mai ad esaurire l’opera, non solo per l’ovvia ragione che il linguaggio non può sostituire la visione, ma anche perché l’interpretazione è sempre un’ipotesi e le opere d’arte sono sempre “aperte” (il che non significa comunque che non ci siano limiti alle interpretazioni).

Quando, seguendo Arthur Danto, uso l’espressione «significato incarnato» in riferimento all’opera d’arte, sto sintetizzando in una formula una concezione complessa in cui “significato” va inteso come interpretazione in senso molto lato, cioè come quell’«atmosfera di teoria e storia dell’arte» (Artworld) in cui rientra l’artista, la sua vita, la sua ouvre, il contesto storico-sociale-culturale, oltre alle interpretazioni e agli effetti prodotti dall’opera; e “incarnato” indica che quel significato è inseparabile dal corpo significante (l’oggetto, l’evento, il segno), il quale è sempre necessariamente presente, anche nelle modalità più inopinate dell’arte contemporanea.

Per me l’opera incarna un significato perché è un’unità inscindibile di materia “formata” e interpretazione “formante”. E questo significato-interpretazione non è qualcosa di esterno e successivo al lavoro dell’artista: è all’opera, in modi sfuggenti e più o meno inconsapevoli, già nel suo lavoro e ha un carattere “asintotico”. Lo stesso carattere che si ritrova, riflesso specularmente, nel lavoro del critico-interprete, che in un certo senso cerca di ricostruire in via ipotetica il processo che ha condotto all’opera finita (ma sempre “aperta”).

A questo punto credo sia evidente che per me questi significati-interpretazioni non rendono invisibile l’opera «per eccesso di luce», né sono qualcosa di posticcio che si aggiunge ad essa creando un diaframma che ostacola lo sguardo. Scaturiscono da un’attenzione visiva e concettuale assieme, perché l’opera è allo stesso tempo corpo e mente, visione e significato. La critica non immerge l’opera in una luce onnipervasiva e appiattente, ma aiuta ad apprezzare meglio anche «la sua luce nera, il suo sapere umbratile», grazie a uno sguardo pensante o a una visione potenziata.

La funzione della critica, scrive Danto «è quella di dotare lo spettatore delle informazioni necessarie a rispondere alla potenza dell’opera». La faccio mia, sostituendo l’infelice espressione “informazioni necessarie” con una meno scientistica, come ad esempio “suggestioni utili”.

«La parola critica», scrive Ferrari, «nasce dal sapere, ma assume una pregnanza solo quando è capace di ridare al sapere il suo sapore». (Noto en passant che, evocando il nesso tra sapere e sapore, questo passaggio scoperchia il pozzo senza fondo della relazione antinomica per eccellenza: quella tra conoscenza e piacere che Agamben individua sotto quel concetto di gusto da cui nasce l’intera questione estetica. Come nota Kant all’inizio della terza critica: «Questa relazione è proprio ciò che vi è di enigmatico nella facoltà del giudizio»).

Confrontando la frase di Danto con quella di Ferrari, credo sia possibile individuare tanto un punto ideale di convergenza, quanto un punto profondo di divergenza. La convergenza è nel considerare la critica come un sapere e le sue parole sapienti come uno strumento il cui scopo è mettere lo spettatore nella condizione di sperimentare la potenza o il sapore dell’opera d’arte.

La divergenza è nel tipo di sapere che la critica ideale offre. Per Ferrari è un sapere sapienziale e fondamentalmente esoterico, quasi un esercizio spirituale che prepara al «balenare dell’invisto» di una realtà indicibile posta oltre o sotto la dimensione semiotico-culturale e che solo l’arte migliore riesce a far intravedere.

Per me è un sapere essoterico che fa necessariamente parte della cultura, perché l’arte non è che il bordo in movimento della cultura, la membrana elastica della semiosfera. E l’oltre a cui l’arte mira non è che questa inesauribile elasticità della semiosfera in continua espansione.

La divergenza nel tipo di sapere comporta anche una differenza nel tipo di scrittura che la critica ideale deve far propria. Per Ferrari, a giudicare dalle metafore che usa e dagli esempi che propone (Anedda, Campo, Ceronetti, Manganelli), è necessaria una scrittura fondamentalmente poetica o comunque una prosa d’arte capace di porsi «nel cono d’ombra dell’opera». Non una «parola definitoria, ma risonante, eco distorcente di una distorsione originaria che l’opera testimonia». Al fondo mi pare faccia capolino l’idea romantica che la vera critica d’arte dev’essere essa stessa un’opera d’arte.

Sono convinto anch’io che la qualità della scrittura non possa che giovare all’interpretazione critica. Come sono convinto che critica interpretante e critica risonante siano entrambe utili e legittime, e che perciò l’una non sia inadeguata e l’altra adeguata. Credo tuttavia che sia più importante far valere la funzione “illuministica” della critica, il cui compito è avvicinare il pubblico all’arte migliore. Perciò in genere preferisco quella critica in cui la scrittura è al servizio dell’interpretazione (esempio paradigmatico: La squadratura di Italo Calvino che interpreta le opere di Giulio Paolini), alla critica in cui l’opera visiva diventa uno spunto per un’opera letteraria (esempio paradigmatico: i Salons di Giorgio Manganelli).

In quest’ultima vedo il rischio che la qualità dell’«eco distorcente» finisca per distrarre l’attenzione e magari rubare la scena all’opera. Questo rischio, lo ammetto, vale anche per la critica interpretante; in questo caso però il difetto non dipende dalla qualità, ma da un difetto dell’interpretazione, che diventa sovra-interpretazione, deriva decostruzionista nelle mani dei «talmudisti delle arti visive», come li chiama Ferrari.

Vorrei concludere con un aforisma che mi sembra sintetizzi bene le convergenze (o divergenze) parallele dei nostri punti di vista. Susan Sontag concludeva il suo famoso saggio Contro l’interpretazione con un frase che Ferrari sicuramente sottoscriverebbe: «Anziché di un’ermeneutica, abbiamo bisogno di una erotica dell’arte». Visto che l’erotismo sta tra le orecchie almeno quanto sta tra le gambe, io direi piuttosto che abbiamo bisogno di un’ermeneutica migliore. E quindi più erotica.

Hilma af Klint, Altarpiece n. 1, 1907

Postscriptum

Il dialogo tra me è Federico Ferrari è continuato con un breve scambio di email, che sintetizzo qui di seguito.

FF: «Per me, l’opera è esattamente quel che dici, uno “spunto”, solo che io non lo direi così, ma direi che l’opera è una “porta”. Non mi interessa l’opera in sé e, di conseguenza, non temo di “rubarle la scena” o di metterla in ombra. L’opera, come le parole critiche, serve solo per accedere a una dimensione ulteriore. Per me, il resto è, nel migliore dei casi, cultura, nel peggiore, feticismo. E, in fondo, provo disgusto per il secondo e poco interesse per la prima. La distanza che ci separa sta tutta qui e non è poca, ovviamente. […] Mi ha fatto sorridere che tu abbia citato uno scritto su Paolini perché proprio questa estate ho ricevuto una lettera di Giulio, estremamente commovente, in cui mi diceva di essersi sentito molto raramente così compreso da qualcuno come nello scritto che mi aveva chiesto di redigere per il catalogo di una sua mostra. Lo dico, non certo per autoincensarmi, ma perché spesso esistono delle ironie della storia che aiutano a pensare: Paolini l’analitico che ama la visionarietà critica».

LB: «Se per te l’opera è una porta per una dimensione ulteriore, la critica è del tutto inutile. O meglio: diventa tutt’altro. Se è così, allora mi pare che anche l’antinomia svanisca: l’opera visiva e la sua eco letteraria sono semplicemente due tentativi di guardare oltre quella porta. E se non c’è critica, non c’è nemmeno una questione da discutere. […] In merito a Paolini, non mi sorprende la sintonia che egli sente per il tuo modo di pensare l’arte. Trovo che ci sia qualcosa di paradossale (antinomico?) nel rapporto tra le cose che Paolini ha fatto e il senso del suo fare che emerge dai suoi scritti (e che evidentemente coincide con la tua idea di arte). Fin dalla sua apparizione all’inizio del ‘900, l’astrazione più radicale appare in bilico tra la semiotica e la mistica. Io tuttavia continuo a pensare che quel testo di Calvino sia una delle migliore “critiche interpretanti” del periodo più importante e creativo di Paolini».

FF: «Non penso che la parola critica sia inutile. Non lo credo, da una parte, molto semplicemente, perché continuo a scrivere e, dall’altra, perché il fatto che l’opera sia una porta non significa che questa porta sia aperta. La critica ha il compito, quando le riesce, di aprirla o di indicare una via per entrare. Per il resto, faccio salvo quanto ti ho già scritto. Anzi, ti invio questo articolo molto vecchio, nel quale, in modo molto brusco, dicevo già molte cose a riguardo».

LB: «Il modo brusco è anche un modo illuminante. Ora mi rendo conto che per te sia l’arte che la critica sono forme della mistica. A questo punto, l’unico esito possibile del nostro dialogo sarebbe una conversione».

In mancanza, le nostre divergenze rimarranno divergenti.

Odilon Redon, Apparition, 1905

Chi ha dipinto questi dipinti?

Un giovane artista che decida di fare pittura oggi si trova un fardello alquanto pesante sulle spalle, anzi tre fardelli: il primo è una tradizione plurisecolare, che culmina con la rivoluzione delle avanguardie moderniste; il secondo, un’anti-tradizione più recente, ma altrettanto forte, quella del paradigma contemporaneo nel quale, dopo l’ostracismo “postduchampiano” nei confronti della pittura, domina il “si-fa-.con-tutto” (la condizione “post-medium”, com’è stata definita); il terzo, la reazione a quest’ultima manifestata dalla pittura postmoderna che ha ormai anch’essa mezzo secolo alle spalle.

Situazione scomoda: bisogna resistere alla tentazione di sbarazzarsi dei fardelli e allo stesso tempo non farsi paralizzare; e nemmeno farsi irretire dalle mode. Ci ha provato, in un modo indefinibile, stranamente introverso eppur coraggioso, un giovanissimo pittore italiano Giulio Bonfante, classe 1997, del quale la galleria Luca Castiglioni presenta la prima personale. Otto dipinti, realizzati negli ultimi due anni, in cui ha frequentato la Städelschule di Francoforte, completando gli studi iniziati all’Accademia di Brera.

(Mi sembra doveroso far presente che l’artista è mio figlio. Non è una excusatio non petita: non devo confessare alcun occhio di riguardo. Anche qui, come in tutte le mie riflessioni sull’arte, io non ho fatto altro che offrire un’interpretazione, cioè un tentativo di ripercorrere il processo che ha portato a quella forma, di immaginare l’intreccio di idee e gesti che potrebbe aver portato a quel risultato. Spero che questo mio testo, messo a confronto coi i dipinti di Giulio, li faccia guardare con più attenzione e interesse, lasciando risuonare pensieri e analogie in grado, spero, di arricchire lo sguardo).

All’entrata il visitatore è accolto da due grandi tele verticali completamente invase da un fondo amorfo in cui prevale un verde marcio impastato con terre brune e ocra, un po’ di rosso cupo, di blu e di giallo sporco. Quando li ho visti la prima volta, un anno fa, mi avevano colpito perché erano insoliti per Giulio, che fino allora aveva lavorato a lungo con segni iconici elementari, tra cui forme rotondeggianti che ricordavano foglie di ninfee. Anche per questo ho pensato a dettagli ingranditi di uno stagno di Monet, ma senza ninfee. Oggi, nella mostra, la suggestione è confermata da una terza tela più recente che intravedo su un’altra parete, in cui predomina un impasto “acquatico” di verde e blu.

Eppure, a guardarli con attenzione, è evidente che questi dipinti non hanno niente di impressionista: sono strati sovrapposti di pennellate caotiche, con macchie e gocciolature qua e là, e strisciate convulse realizzate forse con le dita, come scarabocchi graffiti sul groviglio mucillaginoso. Nessuna suggestione naturalistica.

Ci si potrebbe vedere una vaga aria modernista, evocata però con noncuranza “scanzonata” (prendo l’aggettivo dalla nota di sala): qualche gesto da action painting, ma dall’aria casuale; qualche eco informale, ma senza drammaticità. È un caos immobile e un po’ indisponente: un magma compatto di pennellate impastate e sovrapposte, apparentemente maldestre, che riempie tutta la superficie della tela.

Sul magma, invece delle ninfee, galleggia qualche chiazza più chiara di un colore più definito: rosa e un po’ di azzurro su una tela; rosso e un po’ di verde sull’altra; piccole bolle gialle e graffiature blu sulla terza. Nessuna, però, che possa anche solo lontanamente diventar figura: sembrano sporcature accidentali, indifferenti a qualunque esigenza compositiva. Eppure la loro presenza rompe la monotonia del brodo primordiale e dà un’indefinibile forza e vitalità ai dipinti, come fossero focolai di vita cromatica che sta per germinare (soprattutto il rosa e l’azzurro del dipinto che mi attira di più); dissonanze messe in evidenza, che suonano come le meravigliose note “sbagliate” di Thelonious Monk.

Copyright Armellin Filippo 2022

La prima ipotesi interpretativa mi è venuta in mente con un’immagine: la tavolozza. È come se con questa pittura molto lavorata ma anonima, apparentemente priva di significato e alquanto refrattaria alle emozioni, Giulio avesse voluto esibire una specie di paradossale assenza dell’autore, confermata anche dalla mancanza di titoli: dipingere senza intenzione o cercando di far emergere una mancanza di intenzione. Dipingere il residuo della pittura, i suoi scarti di lavorazione, come se queste tele fossero in realtà tavolozze, umili resti cromatici che sono serviti al pittore per realizzare i “veri” dipinti. Ma il pittore se ne è andato, ha portato via i dipinti e lasciato le sue tavolozze. La pittura è altrove.

Tuttavia, questa interpretazione funziona solo con gli “stagni”, anzi solo coi primi due, perché già il terzo sembra più controllato e “progettato”.

Forse allora, l’aspetto importante di questi lavori, che mi sembra si riverberi su tutta la mostra, è qualcosa di impalpabile: mi sembra che qui Giulio abbia superato una barriera, come se, a un certo punto, avesse cominciato a fidarsi veramente di se stesso, avesse lasciato emergere l’intuito e rinunciato a filtrare e controllare “il pittore”. L’impressione di “mancanza di intenzione” potrebbe essere allora dovuta alla scopertà che al pittore dentro di lui si può dare carta bianca.

Prendiamo il grande dittico composto da due tele orizzontali monocrome: una di un giallo ambrato, l’altra di un giallo luminoso che sembra accendersi proprio per l’accostamento al primo. Il monocromo è una scelta di rigore e minimalismo che sembra opposta a quella delle tele precedenti. Ed è anche rischiosa, vista la pesante eredità novecentesca che si trascina dietro. Il giallo, poi, è un colore positivo ed esuberante, abbastanza estraneo al mondo di Giulio. Forse l’ha scelto come gesto di sfida; o forse per provare a “tararsi” lo sguardo, a crearsi un polo antitetico rispetto a quello dove si colloca di solito il suo lavoro più ombroso e sospeso.

L’effetto “tavolozza” non è tuttavia del tutto assente da queste geometrie di luce. Guardando con attenzione quella di sinistra, sotto il giallo cadmio spento s’intravede un fondo marezzato di macchie rossastre e olivastre, come vecchi lividi sotto una pelle biliosa. Tra quei lividi si possono individuare tracce semicancellate di figure abortite (tra cui la croce del telaio), come se il giallo volesse ricoprire a fatica fasi precedenti del lavoro, in attesa di altre ispirazioni.

In quella di destra, nessuna traccia di lividi sotto pelle: il monocromo è guarito? O era questa la condizione originaria: l’Uno luminoso, semplicissimo e affermativo, dal quale si allontanano emanazioni sempre più sporche (e quindi più ricche)?

Tra le “emanazioni” del sole rettangolare ci sono due piccoli paesaggi (è curioso che al genere siano dedicati proprio i formati più piccoli). Il primo è un lago alpino, da cui la luce sembra essersi ritirata: invece di cercare profondità e far emergere spazi di luminosità, la pittura sembra respingerle per rimanere ostinatamente materia opaca stesa su una superficie piatta. I toni prevalenti sono cupi, il cielo e il suo riflesso sul lago sono di un ocra terroso. In alcuni punti la pittura mostra una superficie craquelé, che conferisce una patina di “antico” al dipinto: un gioco sottile e ironico con la tradizione.

Di terra giallastra è ricoperto anche il secondo, con un effetto materico e “sporco” che ricorda Jean Fautrier. Qui il paesaggio è ridotto alla linea ondulata che fa da confine tra un sopra e un sotto: quasi un’impressione onirica, come in certi paesaggi reticenti di Merlin James.

Un’altra tela di piccole dimensioni è quella su cui Giulio ha realizzato l’unica, elementare astrazione geometrica: spicchi di colore dai toni più o meno incerti e dalle forme diseguali si contendono lo spazio, convergendo approssimativamente verso il centro. Sembra del tutto estranea all’insieme della mostra, eppure c’è qualcosa, tanto nel suo carattere sghembo e dubbioso quanto nella scelta dei colori, che crea insospettabili risonanze.

A risuonare è innanzitutto il dipinto sulla parete accanto: un morbido impasto di blu e viola desaturati sfuma in basso su una fascia dai riflessi più chiari, dove affiorano gialli e verdi. Sembra uno scampolo delle nebbie colorate di Monet, ma le pennellate sono dissolte, nebulizzate, e colano come un’ombra incombente sugli ultimi riflessi dello stagno al crepuscolo, come un lontano, opaco ricordo. Anche qui, comunque, affiora, appena percettibile, il gesto scanzonato: in alto, una minuta macchia bianca, più sporcatura che riflesso sull’acqua, smaschera la bidimensionalità prosaica della tela; e di traverso, una linea ondulata di bollicine ton sur ton attraversa il dipinto come una misteriosa scarificazione. Ancora le note “sbagliate” di Monk, appena accennate, come le piccole imperfezioni da cui, forse, nasceranno perle.

«Diventare un pittore è come cercare di uscire a tentoni da una stanza riempita di roba alla rinfusa e immersa nel buio. Appena cominci a camminare, t’inciampi nel divano di qualcuno, cambi direzione e urti la cassettiera di un altro, ti giri e vai a sbattere contro il tavolo di lavoro di qualcun altro che non si può disturbare. Ogni cosa ha il suo uso e il suo utilizzatore, e nessuno ha bisogno di te».1

Così, sessant’anni fa, Leo Steinberg descriveva l’ardua impresa di un giovane che inizia a fare il pittore. Stava parlando di Jasper Johns che pochi anni prima, nel 1958, aveva esordito con la sua prima personale da Leo Castelli. I posti nella stanza della pittura erano allora tutti occupati da gente come Pollock, de Kooning, Rothko, Barnett Newman, Motherwell: era dunque dagli “espressionisti astratti” che doveva smarcarsi, dal modernismo trionfante che aveva spavaldamente preso il posto delle avanguardie europee. Ma oggi, dopo tutto quello che è successo negli ultimi sessant’anni, gli ostracismi alla pittura, la sua rinascita postmoderna, le mille forme con cui ha continuato a riproporsi e negarsi, che metafora potrebbe descrivere oggi la condizione di un giovane pittore?

Nei lavori di Giulio è evidente un’«istitintiva avversione alle mode», come dice egli stesso nella sua breve nota di presentazione. Dice anche di sentirsi parte di una tradizione della pittura, anzi di «avere a cuore» quella tradizione, della quale però fa parte anche lo scetticismo per la sua attuale rilevanza.

Ecco, questo stato di sospensione tra presente e passato, tra passione e agnosticismo, tra presenza e latitanza è forse il modo in cui Giulio sta cercando di entrare nella costipata stanza di Steinberg. Il titolo della mostra è “Presente”. Ma è come se rispondesse all’appello nascosto da qualche parte. Scanzonato e introverso, si presenta sfuggendo. Chi ha dipinto i suoi dipinti?

Copyright Armellin Filippo 2022

1Leo Steinberg, “Jasper Johns: the First Seven Years of His Art”, in Other Criteria: Confrontations with Twentieth Century Art, (Oxford University Press, 1972; reprinted University of Chicago Press, 2007), p. 20.

http://castiglionifinearts.com/presente-giulio-bonfante/

Vita d’artista: godimento del sacrificio o significato incarnato?

Lettera a Sergio Benvenuto.

Due anni fa sul sito Antinomie, lessi un piccolo, interessante saggio di Sergio Benvenuto sulla trasformazione dell’aura benjaminiana nell’arte del Novecento. Mi colpì soprattutto perché conteneva alcune intuizioni che, pur essendo molto vicine a idee su cui avevo riflettuto e scritto negli ultimi anni, venivano motivate e inserite in un contesto teorico che era fortemente dissonante rispetto al mio.

Questo mi spinse a scrivere a mia volta un piccolo saggio, nel quale esponevo le mie critiche all’impostazione di Benvenuto e riprendevo quelle sue osservazioni dal mio punto di vista, che si basa sul paradigma post-duchampiano e su una reinterpretazione del pensiero di Arthur Danto (punto di vista che avevo delineato nel mio Catastrofi d’arte).

Benvenuto rispose subito al mio saggio, con una replica che purtroppo mi sfuggì e che ho scoperto casualmente solo alcuni giorni fa. Rispondo perciò qui, a due anni di distanza, sotto forma di lettera aperta.

Ecco, nell’ordine, i link ai testi della nostra discussione, pubblicati tutti su Antinomie (nel seguito farò riferimento a questi testi coi relativi numeri):

1) Sergio Benvenuto, Il Reale nell’epoca della sua riproducibilità tecnica
2) Luigi Bonfante, L’aura ambigua dell’arte contemporanea
3) Sergio Benvenuto, Nell’arte, l’essenziale non è l’essenza

Caro Sergio Benvenuto,

vorrei iniziare da una cosa che, sorprendentemente nella tua replica (3) non c’è e che mi ha creato un forte disappunto: una discussione sul tema centrale del mio commento (2) al tuo saggio (1). Un silenzio che mi ha sorpreso anche perché, nonostante l’impostazione fortemente critica, io partivo, come dichiaravo fin dall’inizio, dall’interesse che mi avevano suscitato «alcune intuizioni acute» sulla vita d’artista come fulcro dell’arte contemporaneo.

Tuttavia, prima di riprendere questo tema assente, vorrei ribattere alle osservazioni che hai esposto nella tua replica un po’ divagante, seguendo l’ordine in quattro parti da te proposto (ai tuoi numeri romani ho aggiunto dei titoletti).

I. L’artista contemporaneo «esibisce il proprio godimento nel sacrificio»?

Tu inizi con una sintesi della mia critica che trovo a dir poco sminuente: io sosterrei soltanto che la tua frase «gran parte dell’arte del Novecento modernista segna un ritorno alla dignità della práxis contro il feticismo “commerciale” della póiesis» è un’indebita generalizzazione perché l’arte ha continuato a produrre oggetti (in realtà la generalizzazione è dovuto ad altro: vedi al punto II); e alla tua tesi opporrei quella di Agamben, vedendovi una differenza che a te sfugge perché è in gran parte sovrapponibile alla tua. Mi sembra una semplificazione quasi denigratoria del mio testo, ma mi attengo alla tua scelta e tornerò sui punti cruciali della mia critica alla fine.

Sostieni che quella tua frase non è un’opinione ma quello che «l’arte moderna, anche esplicitamente, ha inteso fare». Ora, ciò che mi sembra indubitabile, e che non ho affatto negato, è che tutti o quasi gli artisti del Novecento, a partire già dai bohemien ottocenteschi, abbiano rivendicato una contrapposizione al feticismo commerciale. Quello su cui invece non sono d’accordo è il senso che dai alla praxis (che è appunto il tema fondamentale del tuo saggio).

Nella tua replica (3) ti limiti a dire che «il valore estetico non è da cercare nel prodotto stesso, ma nella praxis di cui l’opera è reliquia». “Reliquia” è un termine che anch’io ho usato a proposito di Piero Manzoni, un artista che ha lavorato in modo esplicito, ironico e dissacrante proprio sull’idea di opera come reliquia.1 Ma cos’è che conferisce valore alla reliquia? (Nella tua argomentazione, a un certo punto sembra che la mia critica si basi sull’idea banale che “l’arte comunque produce oggetti”, mentre in realtà «bisogna capire cosa dia valore a questi oggetti». Ovviamente anche per me, come ho appena detto, il punto è cosa dà valore agli oggetti artistici).

Per la tua risposta usi un esempio perfetto, quello delle teste di sangue di Marc Quinn: «È questa praxis – l’artista produce opera col proprio sangue – a dar valore al prodotto». Poi citi altri due artisti, Tehching Hsieh e Marina Abramovic, che fanno uso e abuso del loro corpo in azioni dal valore liturgico. (Lascio perdere il riferimento a Odo Casel e ad Agamben, sulla cui «scia» io mi porrei: tornerò alla fine anche su questo). E ne concludi che «l’evoluzione delle performances contemporanee è andata sempre più in un senso sacrificale, l’artista si esibisce come capace di affrontare sofferenze al limite della sopportazione umana», e che «il mercato dell’arte fa commercio di questi “atti di sangue”».

Qui indulgi (ancora una volta) a una generalizzazione infondata: la performance “sacrificale” ha avuto un suo periodo d’oro e alcune figure di spicco, come Chris Burden, Gina Pane, Vito Acconci, Orlan, Marina Abramovic; ma non mi risulta che ci sia un trend in atto. E soprattutto: la performance art e la body art sono solo una nicchia dell’arte contemporanea e le teste di Marc Quinn sono un unicum.

Comunque, rimaniamo al succo del tuo discorso: gli artisti mettono in gioco il loro corpo «perché sempre più si è affermato il valore “pratico” (da praxis) ed “energetico” (da energheia) del lavoro artistico»; «l’artista liturgico aspira alla gloria, […] attraverso il dolore della propria performance», non attraverso oggetti.

Questo varrebbe perfino nel caso di Duchamp e Cage, da me citati come artisti “euforici”, perché la « prova di dolore è in sostanza un piacere di ordine superiore che l’artista persegue. L’artista non fa godere gli altri dando loro a vedere oggetti belli o sublimi, ma esibisce il proprio godimento nel sacrificio». «L’artista si pone insomma come campione del godimento, godimento significato attraverso la sofferenza».

Ammetto che ci sia un piacere di ordine superiore nel sacrificio, ma mi sembra una forzatura ridicola arruolare tra gli artisti del sacrificio Duchamp e Cage, la cui vita e la cui opera dimostra in modo lampante che non hanno niente a che fare col sacrificio e l’abuso del corpo.

Credo che sarebbe un vantaggio anche per la tua tesi lasciar perdere il tema del sacrificio e concentrarsi sull’idea fondamentale: il «valore “pratico” (da praxis) ed “energetico” (da energheia) del lavoro artistico». Purtroppo lasci cadere qui il discorso, che era il tema fondamentale della mia analisi critica. Lo sospendo anch’io per seguire la tua replica.

II. Nel readymade non è il significante a venire in primo piano

Sulla distinzione tra paradigma moderno e contemporaneo parti da un malinteso e forse da una interpretazione fuorviante della mia critica (in 2) che era questa:

«nel Novecento non c’è un’«estetica prevalente»: ci sono molte estetiche diverse e, soprattutto, due concezioni generali molto contrastanti dell’arte, due paradigmi che hanno dominato rispettivamente la prima e la seconda metà del secolo. E solo per la seconda si può parlare, con le opportune precisazioni, di svalorizzazione dell’opera come oggetto. Ma soprattutto, questa svalorizzazione non dipende tanto dalla condanna dell’aura come feticcio, quanto dalla rivendicazione del carattere eminentemente concettuale del fare artistico inaugurata da Duchamp con quegli oggetti paradossali che sono i readymade».

Ho dunque sostenuto che nella tua analisi manca la distinzione cruciale tra paradigma moderno e contemporaneo. Non ti ho accusato di non aver visto il “moderno”, come dici tu. Invece parti proprio da questo, lancia in resta, per rivendicare l’estetica modernista, contro la sua riduzione a un banale concetto “psicologistico” di cui io sarei difensore, usando in realtà argomenti e riferimenti estetico-semiotici che in gran parte condivido.

Al malinteso, lo ammetto, ho contribuito anch’io, per un eccesso di sintesi: avrei dovuto specificare meglio il modo in cui Heinich usa il concetto kuhniano di paradigma (che nel mio testo è soltanto implicito nella distinzione tra “estetiche” e “concezioni generali”). La sociologa francese propone uno sguardo trasversale, da antropologo partecipante, che non tocca solo l’estetica, ma anche la sociologia, l’economia, il diritto. Quando, seguendo Heinich, scrivo che gli impressionisti, iniziatori del paradigma moderno, puntano a «esprimere l’interiorità unica dell’artista», mi riferisco all’idea che nel moderno l’artista esprime la propria singolarità (cioè la manifesta attraverso l’opera); per contro, nel contemporaneo l’artista produce la propria singolarità. Dove il termine “singolarità” è estetico-sociologico, non psicologico; “esprimere” indica che la singolarità deriva dal lavoro sull’opera e dal suo effetto sul pubblico; e“produrre” indica che la singolarità deriva dal lavoro dell’artista su se stesso e sulla sua immagine, prima ancora che sulla sua opera. (Per tutto questo rimando al testo di Heinich e alla mia recensione che uscirà prossimamente su Antinomie).2

Tornando alla tua replica, condivido la tua interpretazione estetico-filosofica del modernismo: lo «slittamento dell’arte verso il significante (verso l’arte che tematizza il proprio linguaggio)». Ma dissento con forza dalla tua idea che non ci sia «una coupure tra un primo modernismo e uno post-duchampiano».

Sono d’accordo sul fatto che nella pittura modernista «il significante si emancipa dalla funzione rappresentativa e si impone come vero oggetto di interesse»; e sul fatto che anche nel readymade l’oggetto «si trasmuta in significante». Questo però non significa affatto che ci sia solo un’inversione di strategia e che i pittori modernisti e Duchamp arrivino allo stesso risultato, cioè a far sì che sia «il significante comunque a venire in primo piano». Nel readymade non è il significante a venire in primo piano perché la qualità estetico-formale del segno (fulcro del modernismo, che Duchamp chiamerebbe “retinico”) non ha alcun interesse! Ciò che interessa a Duchamp è il new thought, cioè il nuovo significato che ha conferito a quell’oggetto; o meglio, il nuovo potenziale significato: un significato che sembra sospeso, come in un limbo. Probabilmente è proprio questo carattere potenziale e sospeso del significato a fartelo vedere come un “significante che viene in primo piano”. Ma il fatto che quel new thought sia indeterminato non vuol dire che dobbiamo concentrarci sulle qualità «scultoree o di design» dell’orinatoio (come tu stesso ammetti quando, all’inizio, usi uno straw argument per attaccare la sintesi surretiziamente semplificata della mia critica).

Si può anche sostenere, come scrivi tu, che «con Duchamp ci viene sbattuta in faccia l’arbitrarietà del significante, il fatto cioè che tutto può essere significante». Ma il punto, lo ribadisco, non è il significante, non è esibire le qualità estetiche di una cosa qualunque. È invece indicare nella scelta e nell’idea dell’artista (cioè nel significato-interpretazione) il valore dell’opera d’arte. L’orinatoio è un invito a vedere l’opera d’arte innanzitutto come pensiero: è questo il nucleo (metaconcettuale) del suo embodied meaning.

Da questo fraintendimento deriva il tuo ragionamento successivo. Dopo aver riconosciuto che la “svolta linguistica” del modernismo si è esaurita e che l’arte è entrata in un’altra fase, caratterizzi così questa nuova fase: «oggi sempre più si tende a insistere sulla crescente indiscernibilità tra oggetto reale e oggetto artistico».

L’indiscernibilità tra oggetto e opera d’arte è una questione cruciale per Arthur Danto e per la sua definizione dell’opera d’arte come embodied meaning (ma discuteremo di questo quando affronti il tema). Tu la traduci così: «Nella nostra terminologia: l’oggetto esterno diventa significante, ma anche il significante diventa oggetto esterno, cosa. Il significante straripa nel reale, lo invade». Qui non mi è molto chiaro cosa intendi per “significante”. Da quanto scrivi subito dopo, sembra sia l’artificiale vs il naturale, il virtuale vs il reale, forse lo spettacolo di Debord o i simulacri di Baudrillard. E quindi l’indiscernibilità sembra diventare la «confusione tra virtuale e reale» di Matrix.

In realtà, la questione dell’indiscernibilità nell’arte contemporanea non è «il corto-circuito tra φύσις e μηχανή» (come scrivi in 3), ma lo spostamento del fare e del valore artistico dalla “retina” alla “materia grigia”, per usare i termini un po’ caricaturali di Duchamp; cioè la prevalenza – non la sostituzione – del pensiero (del significato-interpretazione) sullo sguardo; dalla quale discende il fatto che, in certi casi, lo sguardo, da solo, non può più distinguere un oggetto artistico da un oggetto comune, perché non sono le caratteristiche formali dell’oggetto a determinare le sue qualità estetiche.

Maurizio Cattelan, All (Guggenheim Museum, 2010)

III. L’embodied meaning non è un concetto, ma un Artworld

La differenza tra noi non è dovuta a una questione generazionale, Sergio. Purtroppo non sono giovane: ho solo dieci anni meno di te e sono passato anch’io per la stagione del linguistic turn, di Wittgenstein e della filosofia del linguaggio che da lui ha preso avvio, di Rorty e della filosofia analitica, dello strutturalismo e della semiotica. Anche Danto viene dalla filosofia analitica (che ha arricchito con una cospicua iniezione di filosofia continentale). La sua “essenza” è in realtà il tentativo di individuare una condizione necessaria e sufficiente per definire un’opera d’arte, condizione che, peraltro, egli stesso ha ammesso di non aver trovato: alla fine il suo embodied meaning è una condizione necessaria ma non sufficiente. Io comunque non seguo pedissequamente Danto: non ritengo che la sua definizione valga o sia utile per tutte le opere d’arte in qualsiasi periodo, ma che sia un’ottima definizione per le opere del paradigma contemporaneo. Anzi, più che una definizione, la intendo come come un criterio da applicare a un continuum che va dall’opera modernista in cui il valore è tutto (o quasi) nella forma percepibile, all’opera puramente concettuale, in cui il valore è tutto (o quasi) nell’interpretazione di un oggetto-segno.

In ogni caso, ritengo doveroso spendere qualche parola per difendere la teoria di Danto, che a quanto pare non conosci.3 La formula «significato incarnato» è una sintesi schematica di una formulazione complessa in cui “significato” va inteso come interpretazione in senso molto lato, cioè come quell’«atmosfera di teoria e storia dell’arte» (Artworld, come lo chiama Danto) in cui rientra l’artista, la sua vita, la sua ouvre, il contesto storico-sociale-culturale, oltre alle interpretazioni e agli effetti prodotti dall’opera. Quanto al termine “incarnato”, esso indica che il significato è inseparabile dal corpo significante (l’oggetto, l’evento, il segno) che è sempre necessariamente presente, anche nelle modalità più inopinate, per quanto riguarda il paradigma contemporaneo.

Per me (e per Danto) il significato di un’opera d’arte non è «concetto» o un banale «contenuto»: non è un lemma di dizionario, qualcosa che funziona in base a un codice, una regola che correla rigorosamente un elemento (significante) a un altro (significato); non è la soluzione di una criptografia o di un gioco enigmistico. Se dovessi riformularlo con termini più consueti, direi che l’opera incarna un significato perché è un’unità inscindibile di materia formata e interpretazione. Se pensi davvero che il significato di tutte le Madonne col bambino dipinte nella storia sia sempre lo stesso, stai usando un significato di “significato” del tutto inadeguato a ciò di cui stiamo discutendo (e che potrebbe andar bene tutt’al più in un catalogo sommario, per soggetti, di dipinti religiosi). Ma forse qui ti sei fatto prendere dalla foga dialettica. Infatti è alle interpretazioni che ti riferisci, mi pare, quando parli di «alone semantico», di «sensi, aureole» e, più avanti, di «disseminazione di significati».

È del tutto comprensibile che, dal tuo punto di vista (che per me rimane all”interno del paradigma moderno), il significato o contenuto sia solo un «alone semantico» e che «ciò che conta in ogni arte è la sua musica, che non ha senso». È una formulazione molto suggestiva, che evoca un’analogia dalla lunga storia: culmina con l’estetica romantica, con Nietzsche e Walter Pater («Tutta l’arte aspira costantemente alla condizione della musica»), ispira molti pittori tra Ottocento e Novecento, tra cui Kandisky che inaugura l’arte astratta in nome dello “spirituale”… Ma è un discorso troppo lungo. Mi limito ad alcune considerazioni.

Tra le arti, la musica è quella più lontana dall’idea comune di “contenuto” o “significato”: la musica sembra un linguaggio puramente sintattico, forma priva di contenuto, come l’arte astratta. Perciò sostenere che «ciò che conta in ogni arte è la sua musica» è una professione di formalismo, cioè di modernismo (che in fondo è anch’esso un tentativo di esprimere una caratteristica “essenziale” dell’arte).

Per parte mia, credo che in ogni opera d’arte sia importante tanto la forma quanto il contenuto inteso come significato-interpretazione nel senso esposto sopra. Ci sono opere in cui prevale la forma e la sua “musicalità”; altre in cui prevale il contenuto e l’aura critico-ermeneutica. Queste ultime sono tipiche del paradigma post-duchampiano.

Tu però aggiungi: «Anche i significati contano quando sono bene orchestrati tra loro, quando funzionano come significanti. La musica ci dà una sensazione di senso, ma solo una sensazione. Ogni arte ci dà un affetto di senso». Qui non riesco a capire cosa intendi. Posso solo ipotizzare che con queste formulazioni tu alluda all’inevitabile compresenza di forma e significato nel lavoro dell’artista, che plasma allo stesso tempo l’una e l’altro, in modi infinitamente sottili e vari. Ma a giudicare dalla tua frase successiva, si direbbe che per te il significato-interpretazione sia qualcosa di esterno e successivo al lavoro dell’artista e inessenziale all’opera: «un atto artistico è un evento che apre a una disseminazione di significati, quindi è l’inverso di quello che dice Danto». E ancora: «La lettura dei significati è virtualmente infinita, per cui dovremmo dire che in ogni opera si incarnano significati infiniti».

Il fatto che la disseminazione sia virtualmente infinita non implica che tutte le interpretazioni siano ugualmente accettabili e rendano giustizia all’opera. Per Danto l’interpretazione «deve essere almeno in parte governata dalle credenze dell’artista»;4 e «la giusta interpretazione dell’oggetto-come-opera-d’arte è quella che coincide quanto più possibile con l’interpretazione dell’artista» (che non è la sua presunta “intenzione” consapevole).5 In generale, le interpretazioni sono sempre ipotetiche, ma le ipotesi hanno dei limiti di plausibilità che sono dati dalla coerenza con l’Artworld dell’opera, di cui fa parte anche l’autore e la sua ricerca in quel momento storico, la sua ouvre, la sua vita e il suo orizzonte culturale e artistico.6

Quanto all’interpretazione dell’orinatoio di Duchamp, prendo atto che la mia non ti convince. Ma la tua idea che Fountain «non ha alcun significato» mi sembra contraddittoria, perché dire che «annulla il significato funzionale di un orinatoio» e «ci fa riflettere sul senso in arte» è di fatto un significato-interpretazione (che coincide in parte con quella di Duchamp e con la mia). E contrapporre il gesto di Duchamp o l’evento “orinatoio” al significato non cambia niente: ogni fare artistico, ogni gesto, è sia evento che significato (mentre la gratuità morale di un gesto, a cui accenni come possibile contro-esempio, è un’altra cosa). Con Fountain e gli altri readymade, Duchamp ha introdotto un modo radicalmente diverso di fare arte; lo ha fatto con un gesto e producendo degli oggetti-segni, e il significato-interpretazione del suo gesto e di quegli oggetti-segni è anche quell’idea di arte radicalmente diversa.

Tu dici che ciò che importa è «chiedersi siamo disposti o meno ad accettare gli atti di Duchamp come eventi che modifichino la nostra idea di arte?». Giusto: chiunque voglia affrontare in modo non superficiale le sfide dell’arte contemporanea dovrebbe porsi una domanda del genere; ma tenendo presente che la storia dell’arte ha già dato la sua risposta da almeno sessant’anni: gli atti e gli oggetti-segni di Duchamp hanno di fatto modificato la nostra idea di arte.

Quanto alla tua interpretazione di Fountain come «centauro semiotico», «mezzo utensile, mezzo scultura», mi sembra contraddetta dallo stesso Duchamp: Fountain non è un oggetto che esibisce se stesso come dotato di qualità estetica, perché i readymade sono scelti proprio per la loro indifferenza estetica. Non è «mezzo utensile, mezzo scultura», perché in realtà non è né l’uno, né l’altro.

Infine, tornando alla definizione di Danto: sul suo carattere essenzialista mi sono già espresso sopra; e sulla contrapposizione con le somiglianze di famiglia di Wittgenstein, mi limito a rimandare quanto scrive lo stesso Danto in una decina di pagine ben argomentate del suo testo fondamentale.7

Non credo che la differenza tra noi sia quella tra un essenzialista (io) e un wittgesteiniano (tu). Non confido nelle “essenze”; e ribadisco che per me la teoria filosofica di Danto vale perché offre strumenti critici utili per apprezzare le opere del paradigma contemporaneo. Non la abbraccio in toto; anzi, credo che il suo risultato strettamente filosofico (la definizione necessaria-ma-non-sufficiente dell’opera d’arte) sia fin troppo limitato, anche sono molto interessanti le argomentazioni elaborate nella ricerca (anche in questo caso il cammino vale più della meta).

Giulio Paolini, Delfo, 1965 (dettaglio)

IV. Valore di mercato e valore estetico-ermeneutico

Sul mercato dell’arte in generale io non non sono affatto un “apocalittico”. Se (in 2) ho scritto che «l”opera d’arte, fagocitata nel sistema onnicomprensivo del mercato, reincarna la sua aura nel plusvalore simbolico che coincide con la “cornice discorsiva” creata dai mercanti d’aura», era per cercare di sintetizzare, in modo forse troppo concettoso, l’idea della rinascita dell’aura benjaminiana interpretata marxianamente come feticcio (che è proprio l’interpretazione da cui partiva il tuo testo originale).

Sono convinto che un sano mercato dell’arte sia importante, quanto lo sono una critica e dei musei che svolgano la loro funzione con autonomia e rigore. E non penso affatto che Gertrude Stein, critica e collezionista, abbia “fagocitato” Picasso, che era anzi un artista molto scaltro nel gestire i rapporti coi mercanti. Entrambi hanno contribuito a creare un nuovo mercato per le opere d’avanguardia (come ho scritto in 2).

È innegabile tuttavia il ruolo delle speculazioni finanziarie e del rapporto incestuoso tra critici, istituzioni e grandi galleristi all’interno di quella punta dell’iceberg in cui si fanno i grandi affari dell’arte contemporanea.8 E se è vero che in ogni epoca gli artisti avevano qualcuno che li pagava, il fatto che oggi siano soprattutto i collezionisti a incidere sul mercato ha degli aspetti fortemente negativi (contrariamente a quanto sostieni in 3), come spiega ad esempio Marco Meneguzzo in un suo libro recente.9

Che « la tensione continua ma fertile tra l’artista e il pubblico» sia «la matrice stessa dell’arte, in qualsiasi epoca» è una semplificazione eccessiva. In realtà, il rapporto tra artisti e pubblico è mediato da una serie di ambiti socio-economici diversi, la cui dinamica è descritta in modo molto più accurato dalle «cerchie di riconoscimento» di Alan Bowness, che visualizzano la forza degradante delle influenze: gli altri artisti, i mercanti e collezionisti, i critici e le istituzione, il grande pubblico. E nell’arte contemporanea, come spiega bene Heinich nel suo libro, la situazione è ancora più complessa.10 Di certo, non è il pubblico il “datore di lavoro” dell’artista odierno.

È sorprendente che tu dica che in me «opera una concezione incredibilmente romantica del genio dell’artista», quando invece sono convinto, come ho scritto (in 2), che esista una «lunga e complessa dialettica tra opera e merce che ha coinvolto l’arte fin dall’Ottocento, ha attraversato tutto il Novecento e continua ad essere incandescente ancora oggi», dialettica ben descritta qualche anno fa in un libro di Isabelle Graw.11

Condivido la tua considerazione finale (in 3), con una correzione però: credo anch’io che l’artista ambizioso non debba puntare ad assecondare, quanto a cambiare i gusti. Ma nel caso dell’arte non sono mai state le masse a decidere, e oggi non è necessariamente il mercato. Credo che per i giovani artisti d’oggi valga ancora quanto aveva insegnato Duchamp: non puntare al successo di mercato, ma andare underground; e aspettare che le interpretazioni, col tempo, maturino (la «posterità», diceva sornione il vecchio Duchamp).12 Sfidare il mercato e il “pubblico” puntando su tempi più lunghi significa certamente anche contare sulla gallina domani (il mercato futuro, più o meno lontano), ma soprattutto sul lavoro interpretativo di tutti gli spettatori specializzati che provano e proveranno a dipanare quegli strani, complicati grovigli di metafore incarnate che sono (o saranno) le migliori opere d’arte contemporanee.

Gianfranco Baruchello

Il tema centrale: la vita d’artista è brand o praxis poetica impregnata di significato?

Finita la mia contro-replica alla tua replica, ritorno al tema centrale accennato all’inizio.

Lasciando cadere, come fai anche tu nella tua replica (3), tutto il discorso relativo all’aura di Benjamin, la tua tesi (in 1) era che nel Novecento il valore dell’arte non è più nell’opera come oggetto, ma nella praxis dell’artista, ovvero la sua vita eticamente esemplare, in quanto opposta alla poiesis, ovvero al feticismo della produzione: «gran parte dell’arte del Novecento modernista segn(a) un ritorno alla dignità della práxis contro il feticismo “commerciale” della póiesis».

Come scrivevo (in 2): «ciò che è interessante e profondo della tesi non è tanto la pars destruens dell’oggetto-feticcio, quanto la pars construens dell’arte come praxis», che tu precisavi così: «nella modernità conta la práxis in quanto essa esprime la vita unica dell’artista»; ovvero la sua qualità eticamente esemplare: «quel che dà valore all’evento artistico (non più opera) è una eupraxía, un agire bene».

A tuo avviso questa eupraxia è il modo in cui l’aura benjaminiana rinasce, non più come aura cultuale dell’opera ma come aura cultuale della vita d’artista: «ora l’aura emana dalla vita stessa dell’artista, che si esprime nelle gesta artistiche che lo vedono protagonista», scrivevi (in 1). «Questo agire-bene ha come télos assoluto la smisurata libertà dell’artista moderno che egli getta in faccia al mondo. Questa libertà, che si esprime nel suo piacere per una prassi trasgressiva, può dargli la gloria».

Qui coglievi un punto importante del paradigma post-duchampiano: la continua forzatura dei limiti in nome di una libertà assoluta. Ma, come commentavo (in 2), questa prassi trasgressiva a mio avviso non si basa tanto sul piacere che dona, quanto sulla «ricerca ossessiva della singolarità, perché […] non è la libertà che dà la gloria nel mondo dell’arte, ma la costruzione della singolarità».

Un altro punto importante del paradigma emerge quando più avanti scrivevi (in 1): «non è più l’opera a dare valore all’artista, ma l’artista all’opera. E che cosa autorizza l’artista a porsi come tale e quindi a proporre come arte tutto ciò che fa, anche le proprie feci? La propria auctoritas che deriva dalla sua práxis, dalla sua vita d’artista»

Qui c’è il nucleo della tua tesi che condivido in pieno, e che in questi anni ho elaborato a modo mio. Quello su cui dissentivo – e continuo a dissentire – è la riduzione di questa auctoritas all’aura che, scrivevi, «si afferma come firma e logo e si risolve in molto aurum». Vista così, lauctoritas di Warhol non è altro che il potere sociale che egli per primo ha contribuito a costruire facendosi “mercante” della propria aura in quel mondo dell’arte che è ormai contaminato dalla comunicazione di massa e nel quale Andy Warhol finisce sullo stesso piano Lady Gaga o Justin Bieber.

Dal mio punto di vista, a questa auctoritas socio-economica va contrapposta un’auctoritas critico-ermeneutica, dalla quale discende un diverso modo di considerare l’aura della vita d’artista. Il punto cruciale del mio testo (2) è questo:

«produrre coscientemente la propria singolarità significa non solo crearsi un’immagine, ma anche, e soprattutto, plasmare la propria vita in modo che diventi fisiognomica dell’anima. Ogni azione, ogni idea, ogni cosa realizzata in una simile vita d’artista può avere allora il tocco di Mida che ha suggerito, con la sua ironia, Piero Manzoni. Ogni opera diventa sineddoche di quella metafora straordinariamente complessa che è la vita dell’artista. È come se in ogni opera si riverberasse la “presenza” concettuale della sua intera esperienza artistica, allo stesso modo in cui ogni singola parte di un ologramma conserva il contenuto informativo dell’intera immagine».

Ciò che tu chiama eupraxia, l’unicità della vita d’artista che si rispecchia nella sua aura, per me non è che il riverbero dell’aura concettuale su tutta l’ouvre e la vita dell’artista: una prassi poetica impregnata di significato.

Infine, un chiarimento sul saggio di Agamben: ho voluto inserirlo nel commento al tuo testo non per mettermi sulla scia, come scrivi tu, ma anzi per criticarlo recuperando però un’idea che mi sembrava affine al mio concetto di vita “plasmata” come opera (e non come piacere della libertà e aura massmediatica). Del saggio di Agamben (che ho cercato di esporre nel suo complesso, compreso il passaggio su Odo Casel che è però irrilevante per la mia argomentazione), mi aveva colpito sia l’affinità con la tua tesi centrale (di cui va riconosciuta la precedenza), sia un modo di intendere quella strana praxis che si trova nell’artista contemporaneo, molto diversa dalla tua: una praxis che diventa opera non è l’eupraxia come potere socioculturale (il tuo Warhol); è invece «una praxis-poiesis che pensa (theoria) e produce (segni, quali che siano)» (come scrivevo in 2). E anche le «prassi poetiche», cioè le vite “plasmate” come opere, sono significati incarnati.

1 Rimando al capitolo su Piero Manzoni nel mio Catastrofi d’arte. Storie di opere che hanno diviso il Novecento, Johan & Levi, 2019.

2 Nathalie Heinich, Il paradigma contemporaneo, Strutture di una rivoluzione scientifica, Johan & Levi, 2022.

3 Il testo fondamentale di Danto è La trasfigurazione del banale, Laterza, 2008. Importante anche La destituzione filosofica dell’arte, Aesthetica, 2008.

4 Danto, La trasfigurazione del banale, op. cit., p. 157.

5 Danto, La destituzione filosofica dell’arte, op. cit., pp. 77.

6 Un buon esempio di ricostruzione dell’Artworld di un’opera, senza alcun riferimento a Danto, è l’analisi che Baxandall fa del Kahnweiler di Picasso. Cfr. Michael Baxandall, Forme dell’intenzione, Einaudi, 2000.

7Danto, La trasfigurazione del banale, op. cit., pp. 70-80.

8 Cfr. ad esempio, Georgina Adams, The dark side of the boom, Johan & Levi, 2019.

9 Marco Meneguzzo, Il capitale ignorante. Ovvero come l’ignoranza sta cambiando l’arte, Johan & Levi, 2019.

10 Heinich, Il paradigma contemporaneo, op. cit., cap. 12.

11 Isabelle Graw, High Price. Art Between the Market and Celebrity Culture, Sternberg Pres, 2010

12 Marcel Duchamp, The Creative Act, Session on the Creative Act, Convention of the American Federation of Arts, Houston, Texas, April 1957:

Un’inutile, bellissima resistenza all’entropia del tempo

Dal 2014 centinaia di esili steli metallici spuntano nel deserto di Atacama, in Cile. A ogni stelo è appesa una campanella giapponese da cui pende una striscia di plastica trasparente che si agita al vento. «Si crea così una musica che sembra venire dal cielo, qualcosa di celestiale. Il deserto di Atacama è il posto migliore per vedere le stelle, ogni campanello rappresenta una stella, e lì ho riprodotto la sky map della notte in cui sono nato. Allo stesso tempo è una sorta di cimitero delle anime». Così ha commentato l’artista che ha realizzato questa piantagione di ricordi.

È l’opera che scelgo qui per ricordare la recente morte di Christian Boltanski, l’artista che ha dedicato la sua opera a una missione poeticamente fallimentare: resistere all’entropia del tempo. Animìtas, “piccole anime”, s’intitola questa costellazione di campanelle che tintinnano al vento nel deserto in cui Pinochet ha fatto sparire molti oppositori. Un’altra versione di Animìtas si trova in Giappone, dove la tradizione ha tramandato l’uso delle campanelle votive a cui sono legate le preghiere da far risuonare al vento; una terza spunta dalle nevi del Canada: «Ho sempre immaginato il dopo la morte come un luogo calmo e tutto bianco».

Il testo completo del mio ricordo al grande artista francese è raggiungibile cliccando qui.

Epifania profana

Bassa veronese, 13 giugno 2021, ore 9.

Guardo davanti a me: una porta aperta su un terrazzo illuminato dal sole in una domenica mattina. Nessun orizzonte, nessun mare o cielo o paesaggio poetico. Solo vasi di piante, piccole e grandi, una porta e una leggera brezza che muove appena le ombre delle foglie sul pavimento e fa oscillare la tenda, impercettibilmente. Un’immagine trasandata, vecchia, familiare, rassicurante: la casa di mio padre, che per molto tempo è stata anche la mia.

Per un attimo rivedo un’altra tenda, gonfia e leggera, che respirava nella brezza davanti a una finestra in una mostra d’arte. E improvvisamente la porta davanti a me non è più la stessa. Diventa una piccola epifania di qualcosa che non c’è: un anelito imprecisabile e appena percettibile come il movimento della tenda; ovvio come quell’anta aperta verso di me eppure misterioso come un monolito che appare in mezzo a una radura.

Ma non c’è nessun mistero. Nessuna profondità. Nessun lirismo. È come se quell’esperienza prosaica si fosse sdoppiata pur rimanendo se stessa, come se fossi io ad averla “creata” guardando in un modo diverso quel pezzo di mondo. Assomiglia vagamente alla misteriosa trasformazione che subisce una sensazione quando diventa un déjà vu. Ma nessun ricordo passato si sovrappone al presente, neanche quell’altra tenda, vista anni fa nella mostra d’arte. Qui c’è soltanto un presente che che per un attimo si è come raddoppiato e intensificato. Per un attimo ho sentito di essere su una soglia che non portava da nessuna parte se non dove io ero già, proprio lì e in quel preciso momento: davanti a una porta che si apre su se stessa e che respira impercettibilmente, immobile ed eterna, mentre il mondo continua a scorrere nello sciacquio lontano delle auto che rotolano sulla strada alle mie spalle.

Come perdersi nella Psicoenciclopedia di Baruchello…

Gianfranco Baruchello, a novant’anni suonati ha realizzato un’opera sorprendente: sembra un volume dell’Enciclopedia Treccani, ma è il lussureggiante retro di quell’arazzo lungo una vita che è la sua opera. Si intitola Psicoenciclopedia possibile ed è un libro del tutto anomalo e appassionante, al quale ho dedicato un lungo articolo pubblicato su Doppiozero e raggiungibile con questo link.

Baruchello continua a sprigionare possibilità, come il suo mentore Duchamp: «Il Grande Vetro e le parole del Marchand du sel sono state alla fine degli anni Cinquanta le due porte da aprire e varcare prima di iniziare il viaggio in solitario nel territorio dell’arte-come-possibile». E il contatto con questa fonte continua di possibilità crea un contagioso fermento interiore, soprattutto in chi tende a rispecchiarsi in quella mancanza di solidità esistenziale che rende sempre indefinita e sfuggente l’identità di un artista. È come se si risvegliassero le facoltà creative latenti o assopite, come se l’inerzia angusta della routine si mettesse in moto e il sangue dell’immaginazione cominciasse a circolare.

Spinto dalle mie inclinazioni teoriche, ho viaggiato con entusiasmo dentro il caos ordinato di questa Psicoenciclopedia, costruendo perfino dei grafici dei miei percorsi, affascinato dalla sua ricchezza e dalle sorprese che scaturiscono spesso dai nessi (nell’immagine qui sopra si vede uno dei miei tentativi grafici). E mi sono perso.

Eppure ne valeva la pena. Perdersi (e poi ritrovarsi e poi riperdersi…) in questo labirinto creativo può diventare anche un modo per fare e/o immaginare arte.

Un mondo in un fiocco di neve

La République Boréale è una delle tante piccole invenzioni inutili – un nome buttato lì, su un biglietto, con lo schizzo di una specie di treno-missile – di quello “spirito bizzarro, irriverente e acutissimo” che fu Eric Satie, noto come musicista, in realtà “uno dei Santi Protettori, insieme a Duchamp, di tutta la concezione moderna dell’arte” (cito dal risvolto di Quaderni di un mammifero, Adelphi; a cui mi permetto di aggiungere una chiosa pignola: quella concezione è in realtà la prefigurazione di un nuovo paradigma dell’arte, che si sarebbe affermato dopo la metà del Novecento e le cui anticipazioni – viaggi nel tempo? – ho esplorato nel mio Catastrofi d’arte, Johan & Levi).

Oggi questo toponomastico campato per aria, pescato dagli appunti di Satie assieme a qualche altro nome e alcuni schizzi, è diventato il titolo di un delizioso libretto, nel quale William Nessuno (aka Giuseppe Iannicelli) ha fatto germogliare quei frammenti “satierici”, come un fiocco di neve si genera da una particella in sospensione nell’aria. Ha così scoperto il mondo parallelo che si celava sotto quella punta di iceberg: una misteriosa isola subartica con una sua originalissima mitologia, fatta di aneddoti e leggende che sanno un po’ di favola, un po’ di fantascienza utopica (e cronotopica).

Il libro inizia in effetti come una raccolta di favole, leggere e giocose come fiocchi di neve, unite in una specie di saga nordica in cui domina la figura degli Ingeniør, maghi-scienziati-alchimisti-filosofi il cui ingegno mescola la fantasia ironica di Satie alla saggezza di utopisti illuminati. Sono state le loro invenzioni, di cui si raccontano alcune storie, a rendere la misteriosa Repubblica Boreale un posto straordinario, a dispetto del clima rigidissimo.

Aneddoti e leggende confluiscono poi in un racconto finale nel quale compare un detective scozzese (parente “parallelo” del protagonista di Lorenzo McEwan, netective, il precedente libro di Nessuno) incaricato di indagare su un bizzarro personaggio che incontra nel suo viaggio verso la Repubblica Boreale. Quel personaggio, come si scopre subito, è lo stesso inventore del germe da cui tutto il mondo raccontato nel libro è germogliato: Eric Satie. E il pericolo che incombe su la République Boréale (isola e libro) è che l’irriverente Satie decida di chiamare altrimenti la meta a cui è indirizzato il suo treno-missile: in tal caso tutto svanirebbe, anche il libro che ho sotto gli occhi, come un fiocco di neve al sole.

In tal caso, I suppose, William Nessuno dovrebbe ricominciare a inventare un altro libro e un altro mondo, consolandosi con la constatazione che il mondo degli Ingeniør è stato almeno un sogno condiviso, in qualche universo parallelo di cui anche noi siamo parte.

(Del sogno, questo libro ha anche due caratteristiche tipiche. La prima è l’interruzione improvvisa, che mi ha tolto il piacere di scoprire come va a finire l’indagine di Lawrence McEwan su Eric Satie e la sua storia con la bella ingeniør dagli occhi verdi. La seconda è la componente visiva, qui resa dai disegni buffi ed eterei di Andrea Cerquiglini. Devo confessare, però, che leggendo il libro io mi sono immaginato spesso una versione interamente a fumetti realizzata dal grande Moebius, aka Jean Giroud…).

Dante e mio padre

Nell’anno di celebrazioni dantesche, ho anch’io un omaggio da fare. È il piccolo contributo che mio padre offre alla plurisecolare storia della popolarità che continua ad avere il padre della nostra lingua.

Mio padre, Francesco

Mio padre si chiama Francesco, ha 94 anni e abita con mia sorella Teresa a Cerea, un paese della Bassa veronese. Nonostante gli acciacchi, se la cava ancora abbastanza bene: cammina, vede e sente, anche se un po’ a fatica; mangia di gusto ed è sempre di buon umore. Ha lavorato per quasi ottant’anni. Ne aveva tredici quando, finita la sesta elementare, disse a suo padre che gli sarebbe piaciuto fare il “marangón” e suo padre lo portò in una delle poche botteghe di falegname che c’erano in zona. Da allora, e fino a qualche anno fa, non ha più smesso di costruire e disegnare mobili.

Eppure quando vado a trovarlo, lo sorprendo spesso a parlottare tra sé e sé, mentre entra in cucina per fare colazione, frasi come queste: “Così di ponte in ponte, altro parlando… che la mia comedìa cantar non cura… venimmo; e tenavamo ‘l colmo… quando restammo per veder l’altra fessura… di Malebolge e li altri pianti vani… e vidila mirabilmente oscura”. Dopo l’ultima frase, pronunciata in modo molto teatrale, mi lancia un’occhiatina ridacchiando sotto i baffi. A volte, se si accorge subito della mia presenza, aggiunge invece un “èra?” (“vero?”) tra i versi di Dante, come se stessimo chiacchierando del più e del meno.

Per noi di casa non è una novità: le terzine della Divina Commedia (e non solo quelle del canto XXI dell’Inferno) punteggiano da sempre, nei momenti più disparati, le chiacchiarate di mio padre. Se lo sorprendi a guardare il caminetto, può chiederti improvvisamente: “Cossa ghé in mèzo?”. E dopo qualche tuo tentativo a vuoto, rispondere: “Nel mèzo ghé el camìn… di nostra vita… mi ritrovai per una selva oscura che la diritta via era smarrita. Ma per parlar del ben ch’io vi trovai dirò de l’altre cose ch’io v’ho scorte…”. Il dialetto veronese passa senza sforzo al fiorentino trecentesco del padre Dante.

Di questa antica passione, che non è certo nata sui banchi della scuola elementare fascista, è rimasta una prova davvero straordinaria che spiega in parte come abbia memorizzato tutti quei versi e che merita di essere raccontata.

La vecchia stazione di Aselogna

È la fine di ottobre del 1944. Gli alleati sono bloccati a sud di Bologna. Il veronese è una retrovia tedesca e i bombardamenti alleati si infittiscono, sulla città e sulle linee ferroviarie. Uno colpisce anche la stazioncina di Aselogna, sulla linea Ostiglia-Legnago, che era stata costruita solo dieci anni prima in aperta campagna (la linea sarà poi dismessa negli anni sessanta). L’obiettivo degli aerei è un convoglio nazista e alcuni carri vengono distrutti. La casa di mio nonno è a un paio chilometri, nel paese di Cherubine. Mio padre, che aveva appena compiuto diciotto anni, vuole andare a curiosare assieme a un amico: dalle bombe e dall’incendio forse si è salvato qualcosa di utile. Ma è molto rischioso: in giro potrebbero esserci pattuglie tedesche. Un anno prima un giovane era stato ucciso proprio mentre raccoglieva qualcosa dai binari della stazione di Cerea. Decidono di raggiungere il punto del bombardamento camminando quatti quatti al riparo dei fossi che solcano i campi. Sul posto non c’è nessuno. Raccattano alcuni oggetti e se li mettono in saccoccia. Al ritorno, sicuri di essere abbastanza lontani dalla stazione, risalgono sull’argine. Ma appena fanno capolino sulla strada scoprono, poco lontano, due tedeschi che camminano verso di loro. Non hanno scampo: i soldati gridano “Halt!” e li fermano puntando i mitra. Di quel momento di suspense vertiginosa mio padre ha un ricordo acustico: un leggero gocciolio per terra. Era l’amico che se la faceva sotto.

I tedeschi li portano in paese, dove si trova il comando. Stanno rischiando la pelle: potrebbero essere fucilati per dare l’esempio a tutti. Qualcuno nel frattempo avvisa mia nonna, che corre dal parroco. Quando i tedeschi coi ragazzi prigionieri arrivano nella piazzetta della chiesa, si trovano di fronte il parroco e l’energica donna. I dettagli della discussione non sono noti, ma la pochezza della “refurtiva”, la miseria del paese e la giovane età riescono in qualche modo ad ammorbidire la rigidità teutonica: invece di finire al muro, mio padre se la cava con una ramanzina (e devo all’esito di quella discussione il fatto di essere qui a raccontare questa storia).

Ma non salva solo la pelle: prima di rialzarsi dal fossato, è riuscito a nascondere nell’erba un oggetto a cui tiene molto: un grosso libro, con una rilegatura nera. Non è un vero libro: è un “Copialettere” coi fogli numerati di carta velina. Ma è proprio su quei fogli, per i quali aveva rischiato di essere fucilato, che comincia la sua passione per Dante.

Aprendolo oggi, a quasi settant’anni di distanza, su quelle veline si possono ancora leggere, in un inchiostro slabbrato e macchiato dal tempo, le centinaia di versi della Divina Commedia che mio padre ha elegantemente ricopiato a mano. È da lì che sono passate le terzine che continuano ad affiorare nella memoria del nonno Francesco.

E se gli chiedi perché, ti risponde: “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole. E più non dimandar!”. Poi sorride sornione toccandosi la testa con un dito: “El registrator l’é vecio, ma el va ancora benon”.

Il mare sulla soglia del linguaggio

Luigi Ghirri, Tellaro, 1980 (©Eredi Luigi Ghirri)

Torno a riflettere ancora una volta sul “mare”/mare di Ghirri, sollecitato dalla lettura che della foto propone Marisa Prete in questo suo post. Marisa vede il rapporto tra il definito della ringhiera-con-scritta e l’indefinito del paesaggio come una metafora dello «scarto» tra parola e oggetto, tra segno e immagine, e della sottile dialettica che in questo scarto si rivela tra linguaggio e visione: «è il linguaggio che permette di ‘vedere’ il mondo. Il linguaggio è una soglia di visibilità. E tuttavia il mondo non si lascia definire completamente dal linguaggio. Rimane irriducibile ad esso». E conclude scrivendo che è proprio questo scarto, questa distanza, «ciò che ci fa uomini». Segno, uomo, mondo: qui c’è molta carne filosofica al fuoco. Forse fin troppa. Propongo di ripartire dalla fotografia di Ghirri utilizzando alcuni spunti suggeriti da Marisa. È vero, per esempio, che l’accostamento della parola al suo referente «appare incongrua» e «reclama un senso ulteriore». Ma perché?

In Tellaro, 1980 Ghirri ha scovato nel paesaggio un rapporto semiotico elementare. La magia del caso e l’occhio del fotografo ci offrono una piccola sorpresa, quel senso di improvvisa meraviglia che suscitano le coincidenze. Lo sguardo di Ghirri è sempre attratto dalle coincidenze nascoste nel paesaggio, anche quello più quotidiano: simmetrie casuali, geometrie nascoste, connessioni impreviste, arguzie di images trouvé.

Tra la parola o il segno iconico e l’oggetto a cui quella parola o segno si riferisce si crea una specie di mise an abyme appena percettibile, analoga alle inquadrature dentro le inquadrature tanto amate da Ghirri. «Le inquadrature naturali sono dei segni, dei traguardi, dei confini entro cui lo spazio si rappresenta. Sono la soglia di qualcosa, la soglia per andare verso qualcosa», scrive Ghirri.

Marina di Ravenna, 1986 (©Eredi Luigi Ghirri)

Questa idea della soglia mi fa venire in mente che dare un nome alle cose è un’azione che sta effettivamente sulla soglia del linguaggio: o quando lo si crea, in quel passato filogenetico sconosciuto che per noi può avere solo aspetti mitici; o quando lo si impara, con le illustrazioni dell’abbecedario. Forse è per questo che l’etichettatura dell’oggetto ci appare incongrua: perché avviene normalmente solo quando “si entra” nel linguaggio. Una volta interiorizzate le etichette, noi le “sentiamo” in ogni sguardo che dirigiamo al mondo. A quel punto, mostrare l’etichetta diventa un’azione anomala: un esercizio di astrazione filosofica (come la tautologia); oppure un ausilio a qualche deficit neuropsicologico (come la disnomia); oppure ancora un gioco estetico e intellettuale di spiazzamento, analogo, anche se inverso, a quello che Magritte ci mostra nel deragliamento onirico dell’abbecedario.

René Magritte, La chiave dei sogni

In Tellaro, 1980 l’analogia creata dall’etichettatura è evidente: la parola inquadra il mondo, proprio come lo scatto fotografico. E così facendo lo rivela e lo nasconde. Altrettanto evidente è che la soglia creata da Ghirri con questa “inquadratura semiotica” si costituisce su un rapporto «tra il questo e il quello, tra ciò che sembra poter appartenere al vicino, alla nostra possibilità di conoscenza sensibile e ciò che invece rimarrà sempre lontano – allontanato all’infinito – su un vago orizzonte», come ben dice Vittore Fossati a proposito di un altro paesaggio di mare di Ghirri (quello qui sotto, con l’altalena), che egli accosta alla siepe leopardiana.

«Molte foto di Ghirri ci mostrano quello che c’èquello che si vede più qualcos’altro», dice Fossati. Cos’è dunque il «qualcos’altro» che la nostra foto “mare”/mare indica? Per Marisa Prete è l’orizzonte sfumato nella foschia; ovvero «l’infinito, ciò che per definizione non può essere racchiuso in nessuna bordura»; ovvero l’infinità del mondo che la bordura del linguaggio ci permette di vedere come “mondo”, ma che non potrà mai racchiudere.

Infinito” è un altro concetto filosoficamente impegnativo, che ha dato molto filo da torcere ai pensatori, dagli antichi greci e ai moderni matematici come Georg Cantor. In un certo senso l’infinito è ovunque: se il mondo è infinito è perché è continuo e denso, come la linea in cui possono stare infiniti punti o, più concretamente, come quell’addensarsi dei punti di vista attorno ai confini degli oggetti che Cézanne ha dipinto sui contorni delle sue mele.

L’orizzonte del mare per me è questo infinito di tipo “intensionale”: la linea “di fuga” (vanishing line) in cui una superficie apparentemente illimitata si addensa e non cessa di allontanarsi asintoticamente pur rimanendo ferma. Il sublime della mia esperienza estatica dell’orizzonte (di cui ho parlato nel post precedente) era appunto concentrato in questa linea netta ed evidente, e nelle immaginifiche lontananze che in essa si nascondevano. Per questo faccio fatica a sentire l’orizzonte cancellato dalla foschia come l’infinità del mondo. La foschia ha qualcosa della nebbia che, come dice Umberto Eco: «è uterina. Ti protegge. […] Ti concede una felicità amniotica» (Nebbia, a cura di U. Eco e R. Ceserani, Einaudi, 2009). Anche la foschia, eliminando il lontano sconosciuto e vertiginoso, tende a trasformare il mondo in un vicino familiare.

Formigine, 1985 (©Eredi Luigi Ghirri)

Benché la ringhiera sia indubbiamente un questo, vicino e visibile, che, come la siepe di Leopardi, si confronta con un quello, lontano e invisibile, per me la differenza è più significativa dell’analogia: la ringhiera non nasconde l’orizzonte, ma ne sottolinea l’assenza. Ghirri avrebbe potuto davvero nasconderlo, facendo collimare il corrimano all’ipotetico orizzonte (e forse sarebbe stata una foto più “ghirriana”, come suggerisce Michele Smargiassi). Ma ha preferito mostrare l’evanescenza dell’orizzonte naturale contrapposta all’evidenza concreta e ben definita dell’orizzonte artificiale.

In questa scelta io ci sento il rifiuto della profondità emotiva del sublime in nome di una profondità concettuale delle immagini “pensate”, qui resa ancora più evidente per il fatto che l’inquadratura naturale colta da Ghirri, come abbiamo visto, non è soltanto una soglia dello sguardo, ma anche una soglia semiotica; che è molto più complessa e vertiginosa di quanto appaia. Al suo livello forse più elementare, i due lati della soglia, lo sfondo e la scritta, sono il continuo e il discreto. La “magia” che ci permette di passare dall’uno all’altra è la nostra propensione primordiale a ritagliare la densità informe e caotica del mondo, a inquadrarla in elementi discreti e delimitati, cioè genericamente segni (che possono essere anche immagini e e figure). Ma ognuno di quei segni genera segni che interpretano segni, che diventano cultura e storia, e scatenano una fuga illimitata analoga a quella asintotica verso l’orizzonte.

Possiamo dunque dire, senz’altro, che il segno ci permette di vedere il mondo perché il “mondo” è l’insieme degli “oggetti” che la facoltà semiotica dell’uomo (dalle sue forme più primordiali a quelle più sofisticate del linguaggio) pertinentizza e categorizza ritagliando il continuum informe in cui siamo immersi e di cui siamo fatti. Ma in fondo anche questa è un’elegante forzatura. È più plausibile ipotizzare, come propone Emilio Garroni, che «percezione e linguaggio si condizionino a vicenda» in una «stretta correlazione», che non è un circolo vizioso (Immagine Linguaggio Figura, Laterza, 2005, p. 41). Aggiungerei che percezione e linguaggio sono le modalità indissolubilmente correlate in cui si manifesta quella meravigliosa capacità umana che è la capacità di interpretare, di ipotizzare o, come diceva il buon vecchio Kant, di far giocare immaginazione e intelletto.

Capri, 1981 (©Eredi Luigi Ghirri)

Nel post precedente ho scritto che la “siepe leopardiana” è lo sguardo di Ghirri che esclude dai suoi paesaggi italiani il sublime, il pittoresco e l’aneddotico; e così levando, ne fa opere formalmente rigorose e intensamente poetiche. Ma c’è un senso molto più profondo in cui anche la foto “mare”/mare, come la siepe di Leopardi, «il guardo esclude». E credo sia in questo senso più profondo che dobbiamo cercare per trovare il «qualcos’altro» a cui essa allude.

Noi guardiamo la foto ed essa «ci rimanda al di là di se stessa»: «con la sua forma positiva e presente» ci suggerisce «qualcosa di negativo e assente oltre la sua forma». Per questo «ogni opera d’arte riuscita è una siepe leopardiana», come dice splendidamente Emilio Garroni.

Dall’opera d’arte «scaturiscono significati molteplici, non necessariamente tutti coerenti e tuttavia come raccolti in uno solo, non facilmente esprimibile»; e scaturisce anche «una forza emozionale non affidata a espedienti facili, volti alla commozione, ma tutta contenuta nella forma stessa, tale da suscitare […] un sentimento […] simile a quello che proviamo, senza riuscire a dire di che cosa si tratta, quando abbiamo un’intensa coscienza di essere immersi in un mondo che ci eccede infinitamente e che tuttavia, per così dire, ‘ha bisogno di noi’».

Nella percezione, nel linguaggio e nell’opera d’arte si manifesta sempre, in modi e intensità diverse, la creatività dell’uomo, che sa inquadrare il mondo in uno sguardo, un segno, una metafora. Anche con una macchina fotografica.

P:S. Ho scritto questo e i post precedenti senza aver “studiato” Ghirri. Conosco le sue fotografie più famose, ma non ho mai approfondito il suo lavoro, né letto i suoi testi o quelli della critica. Mi sono solo lasciato stimolare dalla foto su cui mi ha provocato Mauro Zanchi e dalle osservazioni di Marisa Prete e Vittore Fossati, usando qualche citazione di Ghirri trovata sfogliando il catalogo della mostra Pensare per immagini, Electa, 2014. Il mio non è un testo critico: è solo un esercizio di interpretazione personale. Per rendere merito ai tantissimi che hanno scritto su Luigi Ghirri, ho scelto di citare alcuni passaggi di Corrado Benigni e Mauro Zanchi (pubblicati nel catalogo Pensiero Paesaggio, Silvana Editoriale, 2016), nei quali ho trovato illuminanti affinità coi miei pensieri.

Argine Agosta, Comacchio, 1989 (©Eredi Luigi GHirri)

«La sua ossessione di fotografo è stata quella di dare un ordine al proprio sguardo, attraverso elementi che sono già presenti nel paesaggio e verso i quali dirigere l’occhio, perché “la fotografia è essenzialmente un dispositivo di selezione e attivazione del nostro campo di attenzione”, come ha scritto. Nello scomporre porzioni di realtà, nell’inquadrare quest’ultima entro una griglia, nel serializzarla, nell’individuazione di simmetrie, Ghirri ha messo ordine al caos informe delle cose umane, ha aperto spazi volumetrici attorno all’osservatore, in un miracoloso equilibrio di naturalezza e artificio». (Corrado Benigni, Pensiero Paesaggio, p.8-9)

Nogara, 1989 (©Eredi Luigi Ghirri)

«L’idea fondamentale di Ghirri applicata alla foto è quella della proiezione affettiva: lo sguardo come incontro con le cose, verso cui ci dirige una nostra tendenza intima. Non esiste foto di Ghirri che si offra come pura documentazione: tutte mostrano questo orientamento verso un campo di prossimità, di simpatie, di attrazioni e riconoscimenti di un’intimità esterna». (Gianni Celati, Il profilo delle nuvole, cit. da Corrado Benigni).

«Ghirri lascia che si crei uno spazio (interpretativo, mentale, reale, profondo) tra lo scatto – ben confezionato e innegabilmente seducente, con una qualità luministica sempre particolare e riconoscibile – e l’intento concettuale. In questo spazio lo spettatore si può divertire a lasciar correre i suoi pensieri nelle immagini, e decidere se andare verso una lettura filosofica, poetica, nostalgica, o se ricondurla al periodo storico in cui è stata scattata, agli anni settanta o ottanta, al concettuale o al processuale, o se ritrovare echi della storia dell’arte e della fotografia. […] Le sue dislocazioni dello sguardo – intese come lavoro continuo del pensiero, al contempo sia poetico sia filosofico, e come misure dell’esperienza umana – sono utili per contemplare immagini del mondo che ci contiene e che conteniamo». (Mauro Zanchi, Pensiero Paesaggio, p. 14)